Nel corpo del linguaggio
59/a Biennale d'arte di Venezia Intervista a Jonathas de Andrade, l'artista brasiliano che rappresenta il suo paese attraverso la mostra «Con il cuore che esce dalla bocca». «La storia brutale del colonialismo si può manifestare nei minimi dettagli del presente, trasformandosi nella vita quotidiana in qualcosa di assurdo, pur nella sua naturalezza»
59/a Biennale d'arte di Venezia Intervista a Jonathas de Andrade, l'artista brasiliano che rappresenta il suo paese attraverso la mostra «Con il cuore che esce dalla bocca». «La storia brutale del colonialismo si può manifestare nei minimi dettagli del presente, trasformandosi nella vita quotidiana in qualcosa di assurdo, pur nella sua naturalezza»
I visitatori dei Giardini della Biennale potranno «entrare da un orecchio e uscire dall’altro» una volta arrivati dalle parti del padiglione del Brasile. È così, infatti, che le metafore linguistiche si manifestano nelle opere di Jonathas de Andrade incarnandosi nel corpo a cui fanno riferimento. Artista di punta in Italia presso la Galleria Continua, De Andrade (Maceió in 1982) è convinto che quel fare affidamento su parti anatomiche delle espressioni popolari sia un modo «per far vivere sentimenti e soggettività», anche in un’epoca fosca come quella che si sta vivendo. Per scartare con l’arte c’è bisogno però di un «delirio poetico» ed è ciò che evidenziano le sue installazioni: un giocoso quanto inquietante surrealismo attraversa la mostra Com o coração saindo pela boca, a cura di Jacopo Crivelli Visconti (che ha diretto anche l’ultima edizione della Biennale di san Paulo).
Rappresentare il Brasile oggi è una grande sfida, a causa delle complessità e turbolenze del paese. Pensa che l’esperienza artistica possa ampliare la consapevolezza, creando nuove connessioni sociali e politiche, nuove «comunità»?
L’idea di rappresentazione è particolarmente bizzarra in un paese come il Brasile con così tante e molteplici voci. Le diverse prospettive ed esperienze di vita, a volte, sono radicalmente lontane, dato il contesto così disuguale come quello che viviamo. Tuttavia, di fronte a un presente tanto terrificante, credo che queste voci finiscano per sommarsi facendo convergere quel caleidoscopio di percezioni. Mi interessa scoprire come l’arte possa promuovere incontri: è un dono travolgente, che ha un impatto sul corpo e sui ricordi. E guardo sempre all’arte che narra storie: le esperienze estetiche hanno il compito di riattivare qualcosa, soprattutto quando quel che accade è scoraggiante e porta con sé una buona dose di disfattismo. Il mio desiderio è quello di creare un dialogo che risvegli la forza della libido creativa, trasformando la disperazione in azione. Ed è per questo motivo che l’idea di delirio e la sua dimensione politica mi interessano così tanto. Un evento come la Biennale di Venezia è una grande occasione per provare a vibrare insieme non solo nella denuncia, ma per fare quel passo in avanti in grado di reinventare soggettività, lasciando circolare immaginari collettivi. La mescolanza di fantasia e documentazione del clima attuale è un’opportunità: può scuotere la società e invitare il pubblico a formulare proprie domande.
«Con il cuore che esce dalla bocca» è il titolo della sua mostra…
Il progetto del padiglione brasiliano è curato da Jacopo Crivelli Visconti, ma presenta punti di contatto con il tema generale della Biennale, Il latte dei sogni. Parto da una raccolta di espressioni popolari che hanno come metafora il corpo da tradurre in immagini e che, nella loro letteralità, approdano all’assurdo. Eppure parlano di sentimenti che proviamo ogni giorno. Espressioni come un nodo alla gola, con il cuore che esce dalla bocca (appunto) o avere il fuoco negli occhi, raccontano di un antico linguaggio del corpo, del tentativo di tradurre l’intraducibile – ciò che è sensoriale – e, con mia sorpresa, gran parte di questa vasta raccolta di modi dire colloquiali ha molto a che fare con ciò che il Brasile e il mondo stanno oggi attraversando politicamente. Il design del padiglione si basa su quella spina dorsale e si manifesta in fotografie, video e sculture. Corpo e sua memoria, dimensione politica e traumi che non si possono dimenticare. È concreto e onirico. Una bellezza terrificante. Un’indagine su come domare e affrontare le paure, sulla fede nella possibilità di instaurare un sano rapporto con la natura, nonostante la ferocia della nostra umanità malata.
Nel suo lavoro, il rapporto con Recife è sempre molto forte, così come l’interesse per l’identità dell’uomo del nordest. Può dirci qualcosa riguardo al lavoro di Gilberto Freyre e sul suo video «O caseiro»?
Sono questioni che hanno attraversato la mia esperienza personale, nascendo e vivendo nel nord-est del Brasile. Mi piace pensare che attraverso quella prospettiva locale sia possibile toccare temi universali, con giochi narrativi, personaggi e persone, che invitano il pubblico a completare ciò che comprende con il proprio bagaglio di conoscenze. In campo, ci sono per me questioni ambigue come l’identità nazionale, le nozioni di mascolinità e il rapporto con l’omoerotismo, il fascino ipnotico e il tabù moralistico su amore e erotismo. E lungo questo percorso, incontriamo le varie battute d’arresto nella storia del Brasile e ci accorgiamo di come la sua eredità coloniale influisca ancora sulla vita quotidiana, sulla realtà delle esistenze individuali e sulle relazioni personali. In O Caseiro ho cercato di mettere in prospettiva la controversa figura storica di Gilberto Freyre, creando un parallelo tra un film del 1959 che mostra una giornata qualunque della vita dello scrittore a casa sua, e altre immagini della sua governante nella stessa casa e spazi, adesso. Mentre nel film storico Freyre è nella sua abitazione insieme ai suoi dipendenti, quello attuale ritrae solo la governante come protagonista di quel luogo, oggi priva della sua presenza ma impregnata dell’eredità di Freyre. Credo che l’arte converga su una pedagogia radicale nella reinvenzione del presente.
Dove si può ancora rilevare l’eredità del pensiero coloniale in Brasile?
La storia brutale del colonialismo si può manifestare nei minimi dettagli del presente, trasformandosi nella vita quotidiana in qualcosa di assurdo, pur nella sua naturalezza. La disuguaglianza sociale del Brasile si sconta in ogni situazione, soprattutto per coloro che subiscono quella oppressione. È un’eredità che si invera nelle dinamiche perverse del potere, nei giochi di favoritismo, negli abissi sociali, nella povertà e nella mancanza di parità di accesso ai beni comuni, nel razzismo velato e sfacciato. Personalmente mi ispiro sempre alla resistenza radicale di un popolo che, in quel Brasile degli esclusi, riesce a non soccombere e a produrre cultura con una bellezza profonda, pur in mezzo a storie di dolore. Riconosco anche la forza di un’intera nuova generazione di artisti, più giovani di me, che producono narrazioni energiche e legittime sulla storia brasiliana e le disavventure, ancora non digerite, del colonialismo,
Quali sono le sue fonti di ispirazione? La cultura popolare brasiliana è importante?
Mi sono avvicinato all’arte attraverso l’incantesimo della fotografia e del cinema, durante la mia infanzia a Maceió. Ero affascinato dal design grafico di riviste e libri, dal modo in cui parole e grandi titoli si relazionavano alle immagini in vari modi, e anche dal potere che scaturiva dalle immagini in movimento, a cui potevo accedere attraverso i canali televisivi negli anni ’80 e anni ’90. Mi attraevano poi i musei: avevo una vaga comprensione del fatto che quel luogo riunisse oggetti scelti per raccontare storie. Ho pensato allora a come potessero dar vita a nuove narrazioni. L’arte stessa si avvicina all’idea di fiction e non-fiction: la verità è, in qualche modo, sempre relativa.
Oggi continuo a utilizzare le raccolte di appunti, parole, chiavi e aneddoti linguistici, ritagli, foto e filmati che ho archiviato in altri momenti della mia vita. Continuo a cercare nuovi modi e sistemi narrativi, giocando con coloro che incrociano i miei lavori: cerco di espanderli oltre la dimensione statica così da sviluppare esperienze. Collaborare con le persone lo trovo assolutamente eccitante.
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