Il presente nella visione di Ken Loach, Paul Laverty e Rebecca O’Brian, la «storica» produttrice del regista inglese non è mai scontato anche se loro sanno sempre con precisione da che parte stare. Non si tratta solo di schierarsi, ciò che conta è dare voce alle storie quotidiane che della realtà sono parte, di mettere a fuoco quelle contraddizioni all’origine di molti dei conflitti che viviamo.

La mappa che tracciano film dopo film è precisa, dettagliata, sa come convocare la politica indifferente e sempre meno vicina ai bisogni dei cittadini, la sinistra che ha perduto i suoi rapporti con chi doveva rappresentare, la disperazione che spesso si fa rabbia, e altre volte frustrazione di una moltitudine invisibile.

È sulle crepe che lavora Loach da cui trae le indicazioni per «un programma» – come lo chiama – necessario a resistere, a costruire alternative vincenti a impoverimento, emarginazione, razzismo. C’è una sequenza in The Old Oak, arrivato a chiudere il concorso di Cannes 76, in cui Yara (Ebla Mari) una giovane rifugiata siriana accompagna a casa la ragazzina inglese che è svenuta mentre partecipava alla corsa della scuola. Nel minuscolo appartamento uguale a quello dove hanno collocato lei e la sua famiglia, Yara cerca un biscotto che la ragazza dice l’aiuterà a star meglio, e si trova davanti la credenza vuota.

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COSA RACCONTA allora The Old Oak, «La vecchia quercia», che è il nome dell’unico pub nella piccolissima città nel nord dell’Inghilterra dove si svolge? Un paesaggio di miseria e insoddisfazione, lo stesso che era in Sorry We Missed You e Io, Daniel Blake. Chi è rimasto in quel villaggio si sente tradito da tutti, governi, sindacati, partiti: c’erano le miniere e le hanno chiuse, hanno lottato ma hanno perso. Da allora nessuno si è interessato alla loro sorte, in molti sono andati via, i negozi, le scuole hanno cominciato a chiudere, persino le chiese li hanno abbandonati.

Non c’è niente, manca il lavoro, manca il futuro, si sopravvive come si può. È lì che a un certo punto viene collocato un gruppo di profughi siriani, la cosa fa esplodere il razzismo e le rivendicazioni di chi vede in loro la causa del loro malessere, e in quegli aiuti che gli vengono dati – cibo, giochi, vestiti – un ulteriore oltraggio alla loro povertà che invece deve essere taciuta. Comincia così questo film che è una scommessa e unisce due figure che hanno perso molto nella vita anche se in modi del tutto diversi: TJ (Dave Turner) il gestore del pub, e Yara appunto che con la sua macchina fotografica cerca di cogliere quella sua nuova realtà nei volti delle persone, come aveva fatto in Siria, nella guerra, e poi nei campi profughi.

In una degradata cittadina inglese, l’arrivo di profughi siriani genera tensioni e razzismo

LA MACCHINA per lei è preziosa, è un regalo del padre che non c’è più, e le ha permesso di «filtrare» ciò che ha visto, la atrocità di cui è stata testimone. E se TJ sembra arrendersi alla violenza del luogo, lei – rifiuta di perdere la speranza: ci crede che si possono cambiare le cose, perché altrimenti la vita non ha senso.

È un cinema politico quello di Loach? Certo, da sempre, a volte con esiti alterni, che non dimentica però la narrazione cinematografica, che sa commuovere, trovare il ritmo e la scrittura giusti, toccare emozioni e farsi luogo di consapevolezza critica; e che fuori dai dogmi afferma in questo film convinzioni semplici e molto importanti oggi, la possibilità di ripartire da noi, dai piccoli gesti quotidiani per inventare nuove forme di resistenza.

«MANGIARE insieme è stare insieme» era il motto dei minatori del luogo durante le loro battaglie, lo sarà anche per il personaggio di Yara contro il razzismo. È questa idea di «comunità» che il film afferma come alternativa all’indifferenza e alla solitudine, qualcosa che può rendere le persone socialmente fragili più forte, che permette loro di organizzarsi secondo i bisogni. È una possibilità fatta di piccoli passi, enormi sforzi, passaggi perduti, altri conquistati. La speranza che illumina gli occhi di Yara, è la stessa di un regista che non si arrende, e continua a credere in questa forza politica del cinema che può amplificare, rendere emozione ciò che la cronaca minimizza permettendoci una diversa coscienza.

Piano piano la nuova comunità potenziale del villaggio si rispecchia nel suo passato, in ciò che è stato, ritrova con gli «stranieri» gli stessi gesti che erano negli scioperi per la miniera. La loro storia nelle fotografie che sono appese dentro al vecchio pub, quella di Yara e di sua madre invece non la vediamo, non sappiamo cosa c’è nella sua macchina da presa, rimane un fuori campo. Che dobbiamo imparare a capire.