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Nei tre volti di donna lo sguardo su Storia e presente

Nei tre volti di donna lo sguardo  su Storia e presenteUna scena da «3 Faces» di Jafar Panahi

Cannes 71 «3 Faces» di Jafar Panahi in concorso, viaggio nelle zone remote dell’Iran. Sempre assente dalla Croisette, il regista, gira «fuorilegge» ma nulla può contro il divieto di uscire dal paese

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 15 maggio 2018

Tre volti, tre generazioni di attrici in Iran: Benhaz Jafari è una star di oggi, conosciuta e amata per i suoi personaggi nelle soap televisive, e prima anche interprete per l’allora giovanissima Samira Makhmalkbaf in Lavagne (2000); Marziyeh Rezaei non è un’attrice, Jafari Panahi l’ha incontrata per caso in strada convincendosi subito che sarebbe stata perfetta nel ruolo della ragazza aspirante attrice contro i voleri della famiglia; Sharzhad era invece una star del cinema iraniano prima della rivoluzione, danzatrice e cantante è stata poi messa al bando insieme a molti altri artisti del suo tempo come esempio di malcostume e di decadenza morale.

Anche Behruz Vossoughi, di cui nel film vediamo solo il ritratto su una locandina era – ed è ancora – una leggenda, incarnazione del «vero maschio» nell’immaginario popolare, protagonista per Amir Naderi in Tangsir, oggi come il regista di Monte in esilio in America. La storia del cinema iraniano attraversa 3 Faces, presentato ieri in concorso, la nuova regia «fuorilegge» di Jafar Panahi che se riesce a opporsi al divieto di girare nulla può contro quello di uscire dal Paese, a meno probabilmente di non scegliere anche lui l’esilio.

Così la sua «sedia» ai festival rimane sempre vuota, un’assenza che come per Sharzhad nel film, mai mostrata in primo piano ma solo da lontano – ascoltiamo solo la sua «vera» voce che legge un poema – si fa presenza simbolica che interroga il senso della libertà dell’artista, il suo ruolo nella società e nel suo tempo. Diverso dai precedenti realizzati più come dichiarazione d’urgenza dopo la condanna, 3 Faces continua a mettere alla prova la stessa relazione tra «realtà» e «finzione» con cui comporre un racconto del mondo, con un omaggio esplicito a Kiarostami (Dov’è la casa del mio amico o Il sapore della ciliegia), a cui ci riporta il viaggio in macchina di Panahi e di Jafari verso il villaggio tra i monti che spalanca una visione sulle zone più remote e povere dell’Iran, dove le persone quando scoprono che attrice e regista non sono venuti per dare voce ai loro problemi si infuriano.

Tutto comincia con un video su Instagram, una ragazza disperata per il divieto della famiglia di frequentare la scuola di recitazione a Tehran si rivolge a Benhaz Jafari e alla fine del suo sfogo (monologo magnifico) si impicca. Vero? Falso? Panahi esclude un montaggio all’amica attrice sconvolta che lascia il set e lo accompagna a cercarla. La ragazza è malvista da tutti, troppo indipendente, l’hanno fatta fidanzare di forza per evitare lo scandalo ma lei vuole fuggire, essere un «saltimbanco»come chiamano gli attori al villaggio, una donna immorale come Sharzad a cui nessuno parla e che il sindaco ha esiliato in una casetta fuori dal villaggio.

Ogni incontro lungo la strada rivela qualcosa, è un dettaglio di abitudini, culture, tradizioni radicate, la trama dell’intero Paese. Perché non è un film sul cinema iraniano 3 Faces, nonostante appunto gli omaggi che lo punteggiano, piuttosto la sua storia e i suoi protagonisti diventano il dispositivo attraverso il quale indagare la storia e il presente, quella «realtà» che presentata in altro modo sarebbe solo retorica. La censura, gli esili, le battaglie che devono affrontare tutti i personaggi, compreso quello del regista Panahi, è (citando Godard) un remake che si ripete e che appare con un gesto di libertà rispetto ai poteri della tradizione e della politica e della religione – spesso intrecciati.

«Le regole le inventano per non risolvere i problemi e le cambiano ogni volta», dice una ragazza. Il potere del controllo, e il suo paradosso, per metterli in difficoltà si deve adottare un punto di vista strabico, quello da cui si pone Panahi i Tre volti del titolo che sono volti di donna, la forza vitale, l’unica in grado di contestare quel patriarcato che tutto assomma nelle sue diverse declinazioni e che si aggrappa al suo stato con determinazione man mano che questo appare sempre meno motivato. C’è un’immagine molto bella di un toro ferito, il padrone ne esalta le capacità di stallone in grado di fecondare molte vacche nello stesso giorno, è una tragedia dice perché l’indomani le vacche arriveranno al villaggio e il toro non ci sarà, non può morire. Il maschile/macho è celebrato, il vecchio divenuto padre fiero dei figli avuti da qualche ennesima moglie anche in tarda età che vuole regalare a Behruz Vossoughi la pelle della circoncisione di uno di loro, non comprendendo i motivi che impediscono all’attore e a Panahi di incontrarsi. Gli uomini parlano, decidono, condannano, sbraitano, aggrediscono.

Alle donne sta trovare le strategie giuste con cui aggirare quelle loro regole sempre uguali nella loro diversità.
Un allenamento duro, doloroso, resistente: invenzione contro dogma, intuizione contro conservazione. Ed è in questo spazio del «femminile» che Panahi pone il suo cinema, illuminando con pazienza i conflitti nelle sfumature, le contraddizioni e anche la bellezza del «suo» Iran a cui nella critica riesce sempre a guardare con amore.

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