Internazionale

Negli ospedali libanesi inizia a mancare tutto

La piccola Sausan in un ospedale a Rayak, nella valle della Beka’a foto di Vincenzo CircostaLa piccola Sausan in un ospedale a Rayak, nella valle della Beka’a – Vincenzo Circosta

La terza guerra L’impatto dell’offensiva israeliana sulla debole sanità pubblica: scarseggiano medicinali, ossigeno e carburante. Dopo l’esplosione dei cercapersone, un afflusso ingestibile di centinaia di feriti

Pubblicato circa un mese faEdizione del 9 ottobre 2024
Sabato AngieriINVIATO A RAYAK, VALLE DELLA BEKA'A

Sausan in arabo è il nome di un fiore delicato, la traduzione esita tra giglio e gelsomino. È anche il nome di una bambina di 6 anni che da 16 giorni è ricoverata in terapia intensiva nell’ospedale di Rayak, al confine della valle della Beka’a, nella parte rivolta verso la Siria.

«In seguito a un bombardamento israeliano a poca distanza dall’ospedale, le si sono conficcate delle schegge nel cranio – racconta il dottor Raific Haidar, neurochirurgo dell’ospedale – L’abbiamo operata già tre volte perché ogni volta le risonanze evidenziano nuovi frammenti. Però ora la situazione è stabile, ha recuperato la vista e la maggior parte delle funzioni cerebrali, ma non riesce ancora a parlare».

TROVIAMO la madre seduta nella stanza, hijab e tunica nera fino ai piedi, che aspetta l’infermiera per nuovi dettagli. «È fuori pericolo – le spiega la donna interpretando le parole del neurochirurgo – Non preoccuparti habibti». L’infermiera chiama tutti così, habibi o habibti, caro o cara. La donna continua a ringraziare con lo sguardo un po’ imbarazzato dalla nostra presenza, alla fine dice merci anche a noi. Chiamano per un’emergenza e scendiamo al pronto soccorso, hanno appena bombardato un villaggio nelle vicinanze.

«Tutti gli insediamenti qui intorno sono stati bombardati e la situazione non migliora», spiega seduto alla sua ricca scrivania Mohammad Abdallah, fondatore e direttore generale dell’ospedale. In Libano gli ospedali pubblici sono pochissimi, la maggior parte sono cliniche private o convenzionate. Alcuni sono gestiti direttamente da Hezbollah.

Ma non quello di Rayak, come tiene a specificare Abdallah: «Qui Hezbollah non può fare troppe pressioni perché c’erano già delle famiglie molto forti, se volessero imporci qualcosa si arriverebbe senz’altro allo scontro. Certo, ci sono alcuni che si sono affiliati con loro, ma sono quelli che non avevano lavoro, chi era in difficoltà, magari che non aveva studiato troppo». La storia di Abdallah è emblematica del Libano contemporaneo. Viene da una famiglia della borghesia medio-bassa, piccoli proprietari terrieri dei territori orientali, «il mio esame di liceo l’ho fatto in una tenda in quel campo».

Abdallah ha potuto fare l’università come il fratello, anche lui medico nell’ospedale. Abdallah ha studiato medicina in Romania, poi si è spostato in Russia per un periodo. Erano altri tempi, quando una parte del Libano aveva ottimi rapporti con l’Unione sovietica. Il fratello, invece, ha studiato a Lione ma ci tiene a sottolineare che le università di Beirut una volta erano piene di professori francesi e preparavano bene.

Dal 1995 Abdallah con i fondi di non si sa chi, ha iniziato a costruire l’ospedale. La clinica è nuova, ben tenuta, pulita ed efficiente. L’uomo passa tra le corsie come un boss e, in effetti, è proprio ciò che rappresenta. Uno dei clan della Beka’a orientale è sicuramente il suo.

UN OSPEDALE da milioni di dollari, con una fabbrica di proprietà a poca distanza che produceva soluzioni intravenose, la Serum & Solutions. «Poco prima della guerra avevamo comprato un macchinario dall’Italia da 4 milioni di dollari, ma ora è fermo al porto perché nessuno si accolla il rischio di portarcelo» ci spiega.

Il figlio, Hamad, ha studiato in Europa e negli Stati uniti e ci spiega che «se la situazione resta così entro un mese finiremo le scorte». Fino a poco tempo fa la fabbrica di famiglia produceva il 40% delle sacche di soluzioni intravenose indirizzate agli ospedali libanesi, 60-70 ospedali dipendevano da loro. «Ora non abbiamo le sacche, il manager di una ditta italiana ci ha ingannato». Dopo aver fatto tre ordini consecutivi, l’uomo, che gli Abdallah chiamano «ladro», ha chiesto un anticipo di 200mila dollari e non ha mai inviato la merce.

In ogni caso, «ora la produzione è ferma perché prima prendevamo le materie prima dalla Siria, ma la strada al confine è stata bombardata e le merci non arrivano più, poi ci siamo rivolti a un fornitore di Tiro», ma l’invasione ha bloccato tutto. «Si tratta di un problema enorme», conclude dopo averci raccontato che il ministero della Salute non sta prendendo contromisure.

Il dottor Abdallah ci racconta i primi giorni dell’escalation. «Dopo l’esplosione dei cercapersone sono arrivati 150 membri di Hezbollah qui», in tre giorni a partire dal 17 settembre. «Il primo giorno erano quelli feriti agli occhi e alle mani, il secondo alla parte passa del corpo, poi i meno gravi». Alcuni dei miliziani li hanno poi trasferiti in Iran e in Iraq. Dei civili «nei primi giorni ne arrivavano anche 2-300 ogni 24 ore».

Di 431 ricoverati in metà settimana ben 79 sono morti. «Poi i numeri sono crollati a 30-50 al giorno perché se ne sono andati tutti, in Siria o verso altre regioni del Paese percepite come più sicure». Quando gli chiediamo quali sono i problemi principali di un ospedale in Libano oggi e cosa serve di più esordisce dicendo «intanto potreste evitare di mandarci quintali di medicine in scadenza».

CI RACCONTA di un caso di 30mila fiale di antiemetico ricevute dalla Turchia tramite la Croce rossa, «scadranno prima che avremo il tempo di usarle». Ma ciò che manca di più è l’ossigeno, la benzina per i generatori di corrente e i canali sicuri internazionali per ricevere forniture dall’estero.

Dopo l’ospedale ci accompagna a visitare la fabbrica e sul cammina indica tutto, come se fosse il suo territorio. «Il problema – ci spiega alla fine – è che c’è un solo Paese che può risolvere la situazione qui: gli Stati Uniti, e il governo libanese vorrebbe anche…ma chi combatte non vuole». Il suo pacifismo è pragmatico: «In guerra gli ospedali non funzionano bene e i soldi non girano, nei conflitti ci perdono tutti, ma chi combatte non lo capisce mai».

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