«Per la mia famiglia la guerra è stata come una specie di terremoto: noi ci trovavamo da una parte e i parenti di mamma dall’altra, via via che passavano i mesi la faglia tra di noi si allargava e diventava più profonda, come nei cartoni animati dove alla fine i personaggi rimangono isolati su due spuntoni di roccia e nel mezzo un burrone nero li separa». Yulia ha poco più di trent’anni, è nata e cresciuta a Mosca ma la sua famiglia è per metà ucraina. Negli ultimi mesi ha vissuto a Erevan, in Armenia, per «evitare problemi» dovuti al suo lavoro. È circondata da una nutrita comunità di esuli russi, «molti uomini d’affari, i classici moscoviti un po’ cafoni con l’aria vagamente da gangster dei film, gente che evitavo anche quando vivevo in Russia». Infatti i cartelli di Erevan sono pieni di neonate agenzie immobiliari con le fotografie improbabili dei patron con gli orologi in bella vista e i pollici alzati a promettere affidabilità. In città hanno aperto diversi nuovi locali frequentati dalla jeunesse dorée delle famiglie espatriate nei quali fin dall’ingresso si notano elementi fuori contesto.

«CI SONO MOLTI giovani russi, tanti maschi scappati per evitare la leva e alcuni altri a rischio per le proprie idee o per il proprio lavoro, come me». Yulia lavorava in una fondazione culturale finanziata con fondi europei. «Ci occupavamo di ‘portare un po’ di mondo a Mosca’, come dicevamo tra di noi scherzando. La società russa, soprattutto le classi più agiate, subisce molto il fascino dell’Occidente… be’ immagino sia sempre stato così. Comunque erano altri tempi. La mia generazione è molto diversa, noi siamo cresciuti negli anni dell’apertura al mondo, abbiamo potuto studiare su libri che parlavano di tutto, chi poteva permetterselo viaggiava, al cinema si vedeva di tutto e potevamo leggere qualsiasi cosa volevamo. A inizio degli anni Duemila a Mosca avevi l’impressione che succedesse sempre qualcosa, che la città fosse sempre in fermento». Insomma, le piaceva vivere nella capitale. «Da morire. E poi c’era l’Ucraina l’estate. I miei nonni erano di un villaggio vicino Kherson e ci passavo tutte le vacanze, con gli zii e i cuginetti. Lì mi sentivo davvero libera, potevamo andare in giro da soli – a Mosca non mi lasciavano mai, erano preoccupati – ricordo delle tavolate lunghissime che a volte sembrava ospitassero tutto il villaggio».

E QUINDI SI SENTE più russa o ucraina? «Non ho motivo di scegliere». Perché sono la stessa cosa, come dice Putin? «No, perché sento entrambi i luoghi parte di me. A differenza di mia sorella, che ha qualche anno di meno, io parlo ucraino e questo mi aiutava con gli altri bambini. Immagino che sia per lo stesso motivo che lei non veniva così volentieri, si è sempre sentita un po’ esclusa. Gli ucraini in realtà sono un po’ chiusi». In che senso? «Diciamo che sono molto legati alle loro tradizioni, soprattutto nei villaggi. La lingua è la prima cosa, non parlare ucraino ti fa sentire diverso». Ma nel sud, come in Donbass, non parlavano tutti russo? «Sì, e quasi tutti lo parlano ancora, anche se si sforzano di farlo dimenticare. Il punto è che il russo era come una specie di lingua universale, sapevi che dalla Polonia al Kazakistan tutti ti capivano; per i miei nonni, che erano delle persone semplici, era un motivo di orgoglio avere qualcosa di così grande sopra la testa, qualcosa che sentivano come loro». Quindi sei cresciuta, a differenza di molti giovani russi, senza pensare che l’Urss fosse il demonio? «La parte ucraina della mia famiglia è quella che oggi la stampa definirebbe filo-russa. Per assurdo i miei genitori e i miei nonni russi erano molto più critici, forse perché loro l’avevano vissuta più da vicino, non so». Ma in Ucraina c’è stato l’Holodomor. «A noi piccoli non facevano sentire quelle storie, ricordo dei discorsi a bassa voce e nonna che mi cacciava subito; comunque non ho mai sentito i miei nonni parlare male della Russia, i miei zii sì».

E LA TUA IDEA qual è? «Che è stata la nostra storia per ottant’anni, non se ne può parlare troppo semplicisticamente, in molti hanno sofferto, ma fare finta – come fanno molti russi – che non sia mai successo non si può. Anche perché oggi sta tornando». Cosa? «Moltissimi, anche ragazzi, guardano all’Urss come a una specie di tempo mitico, in cui contavamo e il mondo aveva paura di noi. Che stronzata».
Ho visto che in occasione di una qualche festa nelle pasticcerie di Mosca si trovavano dolcetti con l’immagine di Stalin accanto a quelli di Putin. «Sì, negli anni anche il governo ha permesso, probabilmente favorito, che la commemorazione di una certa parte della storia sovietica tornasse in auge». Secondo te c’entra con la guerra? «Un po’ sì, o perlomeno, quelle tirate sulla grandezza dello stato che noi a scuola non abbiamo – per fortuna – dovuto subire, ora sono tornate. Anche nella società il vento è cambiato da qualche anno».

E PERCHÉ tu hai avuto problemi con il tuo lavoro? «Con le nuove leggi, emanate dopo l’inizio della guerra, ci sono diverse definizioni. Ci sono gli ‘agenti stranieri’ cioè quelli che possono restare nel Paese ma hanno questa specie di etichetta data dal governo. Il media indipendente Meduza, per esempio, che tra l’altro ha sede a Riga. Anche la mia fondazione rientra in questa categoria. Poi ci sono le ‘organizzazione non gradite’, che corrono ancora più rischi». Ad esempio? «La testata indipendente The insider, che opera principalmente dalla Georgia». Cosa possono fare a chi lavora per queste organizzazioni? «La prima volta ti fanno una multa, la seconda ti fanno un processo per direttissima e ti arrestano. E ti assicuro che non vuoi, per nessun motivo al mondo, finire in galera in Russia come oppositore».

QUANDO LA RUSSIA ha invaso dov’eri, cosa hai pensato? «Ero a Mosca. La prima cosa che ho fatto è stato chiamare mia nonna, a Kherson. Per ore non ha risposto, ero molto preoccupata. Nel frattempo provavo a scrivere ai miei cugini su Telegram, ma come sai Kherson è stato uno dei primi territori attaccati, le linee sono cadute quasi subito». E poi? «Ho deciso di partire, avevo già fatto la valigia». Perché? «Per stare vicino a mia nonna, che dalla morte del marito era rimasta sola a casa, per aiutare gli zii e i cugini, non lo so in realtà. Ma mia madre mi ha convinto a non andare, ad aspettare un po’ almeno. Dopo l’occupazione di Kherson la linea è tornata e sono riuscita e sentirli». Non mi hai detto cosa pensi della decisione di invadere l’Ucraina. «E cosa devo pensare? Che è una follia, sai quanta gente è morta? Mia nonna è morta per questa inutile guerra e una parte del mio cuore è morta con lei».
Yulia si ferma per la prima volta da quando abbiamo iniziato la nostra chiacchierata, in un bar di Roma, dove ora si trova di passaggio. Generalmente parla velocissimo, non ti lascia quasi il tempo di finire la domanda e inizia con i suoi ragionamenti che sono molto lucidi e schietti, ha la peculiare capacità di apparire cinica e sensibile contemporaneamente. Gli occhi azzurro ghiaccio e il viso da eterna bambina, come quello di molte russe, non tradiscono emozioni. Sotto i capelli biondissimi raccolti una felpa nera larga, jeans stretti (neri anch’essi) e le Converse.

«IN REALTÀ mia nonna non è morta direttamente per la guerra» riprende all’improvviso, «cioè non per le bombe: il villaggio era isolato perché sotto attacco e lei ha bisogno di cure, nessuno sa com’è andata… ma l’hanno ritrovata morta in casa». Non chiediamo dei funerali ai quali è ovvio che non ha potuto partecipare, ma insistiamo sull’Ucraina. «Sì, ho continuato a pensare di trasferirmi lì per un periodo, per stare con i miei zii, che sono vecchi anche loro, per dare una mano a ricostruire, non so bene in realtà, ma pensavo fosse importante essere lì con loro». E, immagino, non è la paura che la frena. «Dopo la morte di nonna è come se qualcosa si fosse rotto nella nostra famiglia, lei era il legame, il ponte, tra i russi e gli ucraini. Ora è come se i parenti ucraini ce l’avessero con me, spesso non mi rispondono, quando lo fanno sembra che li disturbo».

MA PERCHÉ dovrebbero avercela con te? «È come se il fatto di essere salva, di non aver partecipato al loro dolore, dal lato dell’aggressore tra l’altro, mi ha trasformata in un’altra ai loro occhi». «Anzi» riflette, «è come se non sapessero più chi sono, se non ricordassero che io ero quella bambina che veniva da Mosca e giocava nel loro giardino». Di tutto ciò incolpa Putin? «Incolpo la guerra, incolpo la stupidità umana, incolpo chi crede alle menzogne del nazionalismo e, sì, anche il nostro governo e chi si fa ingannare da loro».