«Sono bloccata qui in Giordania da sei anni, insieme a mio marito e ai miei figli, e non voglio restare». Sono le prime parole con cui Siba ci accoglie al «Our Lady of Peace Center» nella periferia di Amman, gestito da Caritas Jordan.

COME MOLTI ALTRI iracheni cristiani, Siba è fuggita verso la Giordania per scappare da una delle incursioni di Daesh a Mosul, in Iraq. Case bruciate, devastazioni, saccheggi: «Da cristiana non avevi molta scelta: scappare, convertirti o pagare per avere protezione». Una storia che accomuna decine di migliaia di persone scappate dal Paese e accorse in Giordania per trovare rifugio. Tornare indietro non si può e a distanza di anni ora si sentono intrappolati.

Le norme che regolano lo status di rifugiato e richiedente asilo in Giordania variano a seconda del Paese di provenienza, ponendo a volte ostacoli per ottenere la residenza legale, un permesso di lavoro, ricevere cure mediche o accedere all’istruzione.

Per quanto riguarda i siriani, i fondi disponibili per il loro supporto sono maggiori e sono di più le organizzazioni che se ne occupano fornendo supporto legale e servizi mirati. Pur avendo limitazioni, ad esempio nella scelta del lavoro o nella mobilità verso alcune aree del Paese, sono supportati sia legalmente che economicamente.

Gli iracheni cristiani, invece, sembrano vivere in un limbo, sospesi tra la mancanza di un riconoscimento legale certo e una burocrazia che non gli permette di lasciare il Paese per raggiungere le proprie famiglie.

SOLO DAL 2020 i benefici del Multi donor account (Mda), un conto di supporto al sistema sanitario giordano, finanziato anche dall’Italia e usato in gran parte per far fronte all’emergenza Covid, sono stati estesi anche ai richiedenti asilo registrati da Unhcr, tra cui gli iracheni, permettendogli di accedere alle cure alle stesse tariffe agevolate dei non assicurati giordani. Fino ad allora dovevano pagare le alte tariffe previste per gli stranieri.

Senza lavoro e senza entrate certe il cibo, la salute, le tasse scolastiche diventano spesso spese insostenibili, aumentando la condizione di fragilità psicologica già compromessa dalla fuga e dalle persecuzioni: tristezza, disperazione, solitudine, depressione sono stati d’animo sempre più frequenti.

Lo spazio carpenteria del «Our Lady of Peace Center» (foto Francesco Verdolino)

«Chi ha soldi a disposizione può avviare un’attività e viene di fatto considerato un imprenditore. Ma chi non ha mezzi non ha il permesso di lavorare da dipendente e quindi di ricevere un salario», ci dice Waleed, responsabile del Centro.

Molti di loro hanno inoltrato la domanda di asilo e aspettano da anni una risposta. Altri devono ancora ricevere l’appuntamento per inoltrare la domanda. «Io sono qui da anni e non sono rifugiato, né richiedente asilo. Non posso lavorare legalmente».

IN QUEST’ULTIMA parola si nascondono spesso storie di lavoro nero, sfruttamento, turni massacranti e ricatti che aggravano una situazione già precaria. A volte i documenti sono fermi all’ambasciata del Paese di destinazione in attesa del via libera, di una lettera di invito o di una «sponsorizzazione». Ma non vi è certezza sui tempi: ci si aggrappa ai racconti di chi dopo anni è riuscito finalmente a partire.

Tutti ci dicono che in Giordania non vogliono restare. Doveva essere una tappa intermedia, scelta per motivi geografici (il confine terrestre) e politici (l’impegno di Amman nell’accoglienza di milioni di rifugiati e la sua relativa stabilità nel panorama mediorientale). Ma pur sempre di passaggio. E invece sono obbligati ad aspettare senza potersene andare.

«Voglio raggiungere la mia famiglia in Australia, mia madre, mio padre e i miei fratelli, e ricominciare da capo a costruire il mio futuro», continua Siba. Nel frattempo organizzazioni come Caritas Jordan e Arcs, oltre ai servizi di accoglienza e ospitalità, cercano di dar loro opportunità di apprendimento attraverso workshop lavorativi (carpenteria, cucito, agricoltura) ed educativi (lingua inglese, cittadinanza globale, informatica) nella speranza che un giorno riescano a raggiungere la meta finale e possano usare quanto appreso.

«È IMPORTANTE per noi imparare nuovi mestieri e acquisire nuove competenze, il processo di migrazione e invito negli altri Paesi è più rapido per chi sa già fare qualcosa. Da quando è scoppiata la crisi in Siria, le richieste sono aumentate e ora la coda per entrare in Europa o Australia è sempre più lunga», ci dice con amarezza Tha’er mentre lavora nello spazio carpenteria.

Il Centro la domenica è aperto al pubblico che ne approfitta per un picnic nel giardino di ulivi, una vera e propria oasi nel panorama sabbioso e roccioso che caratterizza tutta l’area. «Sono momenti di integrazione in cui i bambini possono giocare allegramente e le famiglie dimenticare per un giorno la loro situazione». Ma il lunedì arriva presto e ci si rimette al lavoro, aspettando che qualcosa accada.