Numeri: Milano ne ha 5 volte tanti, Roma quasi 4, Torino 1 e mezzo e perfino Firenze con i suoi 380.000 abitanti ne ha qualche migliaio in più di Napoli-Napoli che di abitanti ne conta il triplo. Eppure l’impatto che hanno qui è del tutto particolare e assume forme impensabili per qualunque altra città europea. Parliamo di immigrati che com’è normale che sia, vorrebbero tutti volare al Nord. Lì il lavoro c’è. Lì il flusso della storia passa veloce. Qui no. Chi qui ci resta impigliato finirà col sedimentarsi in un meticciato che a Napoli – da ventuno secoli crocevia di etnie e colori – ha caratteristiche rese uniche dalla sua storia.

Un mescolarsi di vite scaraventate su questa terra gravida di nostalgie, dove la speranza di migliorare il proprio destino cozza con l’incapacità cronica di sviluppare una teoria praticabile di esistenza. Dove la nostalgia per una casa perduta per sempre viene rimodellata dalla ruvidità del precariato come dalla leggerezza del «chi ha avuto, ha avuto, ha avuto/ ha dato, ha dato, ha dato». Che è poi quel che rende questa parte di umanità migrante, poetica e universale.

Altri numeri: dei migranti stanziali a Napoli il 39,9% proviene dall’Europa, il 37,5% dall’Asia, il 17,5% dall’Africa. Questi ultimi sono quelli che si notano di più perché hanno in gran parte messo radici nei pressi della stazione. Oppure ci calano dalla sterminata periferia ogni giorno, nella speranza di sbarcarci un lunario qualunque. Come la piccola Katy, un’identità sospesa tra Casalnuovo e Mogadiscio, né italiana e manco più somala; lei, ogni mattina sale sul 169 per Piazza Garibaldi dove ci sta tutto e il contrario di tutto. A suo modo diversa dalle altre stazioni, perché allo sfascio della marginalità mischia la speranza ottusa di essere la porta dell’Europa.

Riaperta al pubblico dopo anni, i lavori hanno sfigurato la dignità di questa piazza dai palazzi umbertini con goffi aneliti di modernità, così la vasta area davanti alla stazione è in breve ripiombata in un degrado peggiore del precedente. Qui, tutto un su e giù di fraveca e sfraveca, vènnere o accattà, proprio come prima, solo che prima tutto scorreva nei vicoli intorno alla piazza, mentre ora si srotola all’ombra di enormi, misteriosi cubi di metallo di cui ai più (noi inclusi) sfugge la futura funzione e nelle more fungono da toilette all’aperto per diseredati e senzatetto.

Sia come sia quella di Katy per Piazza Garibaldi è un’ossessione che la donna coltiva quotidianamente: qui vende cibi strani in bustine coloratissime per lo più acquistate da altri africani. Al pomeriggio gira tra Porta Nolana e Porta Capuana e la notte attraversa nuovamente le galassie lontane con il 169. Di parlare con noi non ha molta voglia, a che serve? Ma comprando qualcosa le diamo un piccolo motivo per farlo: «da voi la morte si sente, da noi si vede…» ripete come una nenia, poi spiega, «mio padre era generale, anche i miei fratelli erano nell’esercito. A me m’hanno fatto scappare via che ero una ragazzina… sono tutti morti ma io non li ho visti. Mia madre, invece, era di un’altra tribù e io, quindi, non appartengo a nessuna delle due. Sono clandestina anche a casa» continua Katy mordendosi un labbro «un cugino potrebbe ammazzarmi o vedermi nemica. Non torno per mio figlio e per mantenere vivi i miei cari. Perché restando a Napoli non vedo la loro morte: sono tutti vivi».

Piazza Garibaldi. La guerra lasciata alle spalle che rispunta dai telefonini dei viandanti, il peccato fatto di sesso a cottimo e devastazione, ma anche tante idee di redenzione con moschee e chiesette di culti misteriosi che sbucano dai garage. Il figlio di Katy. Se le identità della madre sono sospese tra Casalnuovo e Mogadiscio quelle del figlio sono graniticamente napoletane, con quelle sue movenze da guappo dei Quartieri Spagnoli, lui rappresenta alla perfezione quel meccanismo identitario avvolgente che chiamiamo meticciato. Ed è, il figlio di Katy, paradossalmente più straniero alla sua stessa madre che a noi. Sedimentato in questa terra dove l’illegalità la fa da padrona, il ragazzo va progressivamente scivolando verso una microcriminalità che con lo sfilacciamento dei clan di camorra in seguito alla pandemia, vede ora una progressiva apertura di spazi di marginalità alla nuova delinquenza di extra-napoletani. Alieni che non hanno una diversità razziale, nel senso di bianchi, rossi o neri, ma un unico comun denominatore: la fame. E lo stesso dialetto diventa lingua madre per molti di loro, come in un paradosso di una maternità incerta. Sul pianeta Napoli, per poter reggere alle tante sue vergogne, bisogna pure reinventarsi le condizioni che rendono possibili nuove forme di vita.

Così, sia le piccolissime cose che i valori universali, si frullano in un anelito alla sopravvivenza che esclude, a priori, ogni razzismo; meglio, lo identifica in due uniche razze: chi mangia e chi è mangiato. Nel dedalo dei vicoli intorno a Piazza Garibaldi persino i moralismi borghesi si scompongono nello sguardo furbo delle tante bambenelle africane, qual tragico destino di non aver altro che il proprio corpo per sopravvivere. Il sorriso come unico baluardo ad uno scuorno che renderebbe la stessa vita impraticabile, perché sprovvista di aria, luce, cibo. Quella ricerca dunque di un «Pane Quotidiano» possibile, che crea legami, a volte violentissimi, ma a tratti capaci di scatenare solidarietà orizzontali. Così scopri che anche la fuga dei migranti, il suo evolversi, acquista significati di volta in volta diversi e mentre c’è chi corre per paura di non mangiare, c’è chi corre per scappare dalla propria paura. Le migrazioni, sia quelle che arrivano da noi, tanto le nostre, hanno nella paura un motore infernale. Si scappa da una guerra, da una miseria certa e inevitabile, ma si scappa anche per evasione, per la fuga da troppi sé scamazzati dai vuoti. Così questa umanità immensa e varia si disperde indistinta nella paura, ma misteriosamente scopre anche la dolcezza di un’ibrida e inspiegabile autenticità. È la vertigine del nulla che spinge a mischiarsi, a stare insieme, a vedere i goal di Osimhen come preghiere esaudite.

«A voi sembrano tutti uguali ma gli africani sono tra di loro, non solo diversi per origini ma anche per destino… i senegalesi hanno il commercio nel sangue, i tanzaniani sono gran lavoratori, ai nigeriani piace ostentare… » a parlare è Luca, quarant’anni, cappelletto verde marcio con visiera, tatuaggi tribali sugli avambracci: più del comboniano che ha vissuto in una baraccopoli africana per dieci anni, sembra un gangsta-rapper. Luca adesso lavora per la Caritas e alla stazione di Napoli ci passa spesso per occuparsi di qualche caso particolare: «una volta arrivati a Napoli la maggior parte degli africani prende un treno per Caserta e di lì a Castelvolturno, la Soweto d’Europa, da dove poi si disperdono per tutt’Italia a spaccarsi la schiena con la vendemmia o a raccogliere arance, pomodori… il tutto rigorosamente al nero. Castelvolturno dove mediamente stazionano 20, 30mila migranti venuti fin quì da Mamma Africa nell’illusione di sfuggire all’inferno, finiti incastrati in un altro inferno fatto di clandestinità, camorra, caporalato, cantieri abusivi, prostituzione, pastori pentacostali, connection-houses… ma questa è un’altra storia. Quella che Io Capitano non ha fatto in tempo a raccontare.

Terza e ultima puntata del reportage su Napoli. La prima puntata è uscita su Alias il 9 marzo, la seconda il 16 marzo