Napoli divide. Dal boom turistico iniziato cinque anni fa e amplificato l’anno scorso dal suo primo scudetto senza Maradona (in campo) fino alla vittoria «scippata» a Geolier pochi giorni fa a Sanremo, Napoli divide gli italiani, ma divide soprattutto i napoletani: con i primi storicamente suddivisi tra odiatori e adoratori, e i secondi fatalmente spartiti tra fanatici identitari e insoddisfatti cronici.

Ma a ben vedere è storia vecchia: già quarant’anni fa Domenico Rea raccontava della distanza siderale (non solo economica e culturale ma quasi antropologica) del napoletano di Forcella da quello del Vomero, di quello dei Quartieri da quello di Posillipo…. divisioni geografiche «orizzontali» alle quali vanno ultimamente aggiunte anche quelle «verticali»: chi vive in un basso con poca luce e poca aria e chi vive ai piani alti e magari vede pure il mare.

Già, perché, da qualche anno, in parallelo alla «riqualificazione» del ventre di Napoli, una parte della borghesia s’è trasferita nei piani alti di vicoli fino a un paio di lustri fa decisamente off-limit e oggi meta di un turismo solo apparentemente caotico e fuori controllo. Perché a Napoli più cresce il caos, più cresce chi il caos lo ha sempre controllato.

Piero, persona colta e attenta, fa la guida turistica da venti anni, professione che svolge con sobrietà e intelligenza. La sua parabola esistenziale è fortemente simbolica: laureato brillantemente all’Orientale di Napoli ha quasi subito trovato lavoro in Francia. Ma vuoi la mamma, vuoi la fidanzata, non ha retto ed è tornato a Napoli con le carte in regola per dirigere un giornale o insegnare all’Università. Invece ha trovato solo un posto come contabile presso una ditta del Cis di Nola, enorme no-luogo per la vendita all’ingrosso. Depressione. Perdita di interessi per il mondo. Divorzio e infine licenziamento per scarsa redditività. Allora si è dato questa chance turistica, facendo e vincendo il concorso: «prima l’esame era su base regionale, una guida della Campania non poteva lavorare a Venezia, poi siamo diventati guide nazionali… già mi sembra una stupidata che uno come me possa guidare una comitiva in Piemonte e ora che con le nuove norme europee i gruppi possono portarsi le guide direttamente dal paese loro, noi siamo costretti a proporci anche a metà prezzo». Ha uno sguardo dolente ma l’indignazione gli fa alzare i toni: «guardati intorno, i turisti aumentano in modo esponenziale ma non il mio guadagno, anzi. Turismo povero che danneggia i luoghi, li impoverisce, li degrada. E gli itinerari sono spesso eterodiretti dai social: chi vuole andare a Scampia a vedere le Vele di Gomorra, chi a Pizzofalcone per i «bastardi», chi la Ferrante, questi guardano la televisione e pretendono di ritrovare Ciruzz’ o’ milionario al bar».

Quando l’immagine di una città è incentrata sulle sue budella non è mai un fatto buono. «A volte», continua Piero accendendosi l’ennesima sigaretta, «quando incrocio un angolo molto sporco tento di cambiare strada e invece loro sono proprio attratti dalla munnezza. Ieri, pensa, una comitiva voleva andare a Santa Lucia per vedere gli scafi blu dei contrabbandieri: ho dovuto spiegare che Mario Merola è morto da un sacco di tempo e le sigarette si comprano dal tabaccaio… qua a furia di luoghi comuni e stereotipi finisce che diventiamo uno zoo». Camminando camminando siamo arrivati all’imbocco di via Toledo con i suoi negozi eleganti assediati, quasi murati, da bancarelle volanti di paccottiglia d’imitazione tra le quali fanno lo slalom torme di turisti fai da te. Ma è dagli striscioni, dai cartelli e dalle luci dei vicoli dei Quartieri Spagnoli che si affacciano su via Toledo che la massa umana viene risucchiata come posta pneumatica.

E qui, tra cartonati Osimhen formato 1a1, murales di Troisi e Pino Daniele, caricature di Totò&Peppino, edicole sacre con foto di Maradona, panzarotti, paste cresciute, pizze cotte male, spritz in bicchieri di plastica, bassi-casevacanza e terranei-b&b, siamo bruscamente catapultati nel Truman Show della Napoli tanto al chilo: «li vedi tutte questi ristoranti? Bar? Pizzerie? Friggitorie? Pescherie? Salumerie? Qui dappertutto si lavora al nero a venti euro a giorno e nessuno controlla. Andate a Firenze o Venezia, pure loro sono altrettanto travolte dal turismo mordi-e-fuggi di massa ma solo a Napoli, soltanto a Napoli trovi un barista a 120 euro a settimana! No, così non crei opportunità di lavoro vero, sviluppo condiviso… ma solo qualche furbo o camorrista che diventa imprenditore… ma vogliamo palare della casa? Qua non si trova più una casa in città da affittare manco sparàti. Niente! Tutti i figli dei miei conoscenti sono andati via. Tutto questo turismo crea pure un giro di soldi, certo, ma poi, dove vanno a finire? La verità è che a Napoli non si è migliorati in niente: ospedali, scuole, sicurezza, infrastrutture, pubblica amministrazione…» quella di Piero è l’analisi spietata ma anche terribilmente lucida di chi il territorio lo conosce come le sue tasche, «vuoi sapere una cosa? per come la vedo io qua basta un nulla, una capa pazza, un primo cadavere eccellente… e questa pax mafiosa salta: senti a me, un paio di morti giusti e questi pellegrini scompaiono per un secolo».

Dove Greci, Romani, Ostrogoti, Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Francesi, Austriaci, Borboni e Piemontesi hanno fallito, ossia nella conquista del ventre molle della città e del suo specifico antropologico, ci stanno ora riuscendo gli affittacamere. Degenerazione dell’endemica incapacità dell’élite di sviluppare politiche economiche che vadano oltre una forma edulcorata dello strozzo. La Napoli risorta, quella narrata con superficialità da chi si accontenta d’un folclore guasto, in realtà non esiste. Si avvia piuttosto la Napoli reale a essere triturata dalla globalizzazione, complice il cedimento di quelle resistenze umane che la rendevano città unica.

Persino la nostra bella lingua, traviata da banalità e sottoculture tanto deviate quanto esaltate, va mutando in uno slang gutturale e senza poesia. Una Piedigrotta morta, perché trasforma l’istinto popolare, la sua imprevedibilità, in una recita compulsiva e standardizzata di cliché tetri. E Napoli scompare in un’autorappresentazione malata, stantia, adatta a vendere calamite cinesi col Vesuvio grigio-topo a turisti sciatti per 0,50 euro. Ma non solo calamite: in Cina sono ormai prodotte borse, scarpe griffate, orologi… spazzato via quello che era una volta il falso d’autore local dietro al quale c’era un know-how fuorilegge sì, ma almeno di eccellenza, fatto di sarti, calzolai, pellettieri… con la conseguenza che grande fetta di questa transumanza turistica sbarca ormai sotto al Vesuvio anche per fare shopping criminale.

Su via Marina, trasformata in un deposito di bus turistici, la vendita avviene quasi sulla porta del bus: chilometri di falso importato dalla Cina gettato lì per terra. Nel contempo cresce una genìa di giovani senza ne’ arte ne’ parte, posta davanti a un bivio: venditori ambulanti di calzini in giro per l’Italia o manovalanza per una criminalità post-moderna che nelle sue camaleontiche trasformazioni finanziarie potrà sempre e comunque contare su un esercito di disoccupati?

Gennarino ha una faccia senza età, che è una cartina geografica della nostra terra. Dentro ci sta tutto e il contrario di tutto. Un balordo con una adolescenza e poi una giovinezza vissute con regolari intervalli tra detenzione e criminalità. Il rumore. Il rumore dei cancelli che si aprono e si chiudono: è questo che Gennarino ricorda dei suoi tanti ingressi in carcere: non luoghi, facce, parole di biasimo o di incoraggiamento, stati d’animo; ma il rumore dei metalli che si sovrappongono. Ma Gennarino a un certo punto ha capito che la marginalità è un ergastolo e che per uscirne fuori, doveva rompere quelle catene.

Fu così che una mattina uscì dal carcere di Poggioreale senza nessunissima fretta di rientrare nel suo mondo. A Piazzetta Augusteo ci stavano dei volontari che regalavano cani, se ne prese uno e lo chiamò Nicolino. E insieme a Nicolino, andò a occupare abusivamente una stanza in una struttura abusivamente occupata in Sedile di Porto. E così, con una sua «famiglia» col tetto sulla testa, doveva ora procurarsi di che vivere tenendosi lontano dai guai. «Prima della pandemia avevo creato un piccolo business con i B&B: vendevo materiale per la pulizia e casalinghi vari a sette/otto strutture qui in zona. Una cosa in nero, che però mi faceva mettere il piatto a tavola e i croccantini per terra. Poi col covid si è tutto fermato, ma anche adesso che tutto è ripartito e la città è piena di turisti, i miei clienti si sono abituati a comprare con il telefonino. E così mi arrangio: qualche bancarella, piccoli servizi a qualche amico che ha bisogno di una mano. Voglio stare lontano dai guai, ma poi come si dice… se hai fame, mangi».

Già, con la pandemia tutti abbiamo imparato ad acquistare online, a fare call, a interagire attraverso i social. Noi stessi, prima della pandemia, pensavamo che Facebook e Tik-tok servissero solo ad insultare l’allenatore del Napoli o il suo presidente dopo ogni sconfitta. Oggi chattiamo con persone che non abbiamo mai visto. In questo clima da day after non ci dividiamo più sulla realtà, ma su proiezioni astratte della stessa. E così anche la tipica predisposizione dei napoletani ad aprirsi con gli sconosciuti diventa un tratto più caratteriale che antropologico.

«Mi fate troppe domande alle quali non so rispondere…», Elena, che non si chiama Elena, ha un negozio di strumenti musicali artigianali nella via dei turisti: putipù, scetavaiasse, tammorre e tutto fatto a mano. Non è paura quella che gli fa celare la sua identità, piuttosto un conformismo. «Dopo il terremoto» dice, «qui era un far-west: camminavi e capitava di trovare un morto ammazzato a terra. Poi tra rinascite vere e quelle inventate abbiamo fatto un po’ di soldi. I primi turisti erano come pionieri e quando trovavano un negozio come il mio spendevano pure mille euro. Oggi… oggi reggo, perché non saprei cosa altro fare, ma oramai mi passano davanti e non mi vedono: un fiume umano che però mi rende invisibile. Farei più soldi a vendere le bottigliette di acqua minerale. Quello che non capiscono i nostri politici è che questa specie di pace mafiosa reggerà fino a che tutti avranno da mangiare. Adesso, senza casa, senza lavoro, senza sussidio e senza arte né parte, si riprenderà il cammino verso la delinquenza. Ma questa volta teniamo di fronte pure una microcriminalità… come dire?… fulminata, ragazzini che ti ammazzano per uno sguardo sbagliato o per una banconota da dieci euro. Guardateli ‘sti ragazzini, strafatti e violentissimi. Sono poco più che bambini, ma cresciuti a pane, odio e abbandono: sono pericolosissimi. Che fare? Non saprei».

Chi sa fare non si muore mai di fame, si diceva a Napoli una volta: ma se non si sa fare più niente? I residenti che resistono nel centro storico si lamentano della movida: uno sciame di ragazzini sbandati e alterati che urlano tutta la notte. Nessuno però sottolinea che questo fenomeno è, almeno in parte, dovuto al connubio tra criminalità organizzata (che spaccia) e imprenditoria di intrattenimento (che l’ingozza di alcol): un mix dove si urla di indignazione solo quando scappa il morto. È il modello del consumismo dilagante che abbinato alla povertà culturale e alla scarsezza di riferimenti positivi – dalla scuola, ai cinema, allo sport – spinge questi ragazzini verso un buio della mente. A trascinarsi fino all’alba tra un drink e una sniffata, fino a spappolarsi il cervello. Per il resto certa borghesia cittadina si astiene dal prendere posizione sul lavoro nero, sul «neo-schiavismo» e sulla deportazione di massa dei residenti verso periferie ignote e mal servite. Si limita a difendere il diritto al sonno. Poi, passata la nottata, bene o male, ecco che arriva l’alba. L’alba che cancella la città, brucia lo sguardo di una nostalgia torbida, pornografica. L’alba con la sua processione delle anime morte dei nostri ragazzini strafatti, sconfitti, abbandonati.

Una processione di fantasmi che sfiora altri fantasmi: sono i raccoglitori di monnezza. Molti di questi altri zombi che vagano tra i cassonetti sono extra-comunitari ma c’è anche qualche italiano a cercare il tesoro nascosto. Due processioni quindi, che si incrociano senza guardarsi, con i ragazzi che non sospettano o non vogliono sospettare che col passar degli anni potrebbero pure passare all’altra processione a cercare nella monnezza la sola speranza di sopravvivenza. Poi, con il sole che sorge, i raccoglitori di monnezza diventano venditori e si incontrano in un misterioso flash mob dietro la stazione centrale oppure tra Porta Nolana e Porta Capuana, dove ogni mattina va in scena il mercato della monnezza; una compravendita degli avanzi della notte che assume valore quasi filosofico di nuove identità post produttive. Un Uomini&Topi livido, che trasforma lo scenario napoletano in un Quarto Mondo senza armonia.

E la memoria torna a un passato tutto sommato recente e per molti versi indecente: la Napoli di Achille Lauro, dove però alla cultura delle «mani sulla città», alla scarpa destra prima delle elezioni e quella sinistra dopo, si contrapponeva il nascente sogno operaio e la vivacità di élite mai prone al potere. Una città che, da Gianturco a Bagnoli, voleva disperatamente un futuro che la facesse uscire dal presepe del plebeo con la mano davanti. Tutto perduto, tutto cancellato e di quei distretti industriali restano solo rovine abbandonate e magazzini per i discount di paccottiglia. Una resa incondizionata, senza che ci siano le voci ferme degli Eduardo De Filippo o dei tanti intellettuali resistenti napoletani di allora: solo rappresentazioni autocompiaciute di sottoculture criminali spacciate per autenticità identitaria.

Prima puntata del reportage su Napoli. La seconda puntata è uscita su Alias il 16 marzo, la terza e ultima il 30 marzo