Napoli, la disgrazia e la metamorfosi del dolore
Opinioni Forse bisogna convincersi che non c’è un modo solo per parlare di una città, forse neppure di un paese, senz’altro non di una città mondo come Napoli
Opinioni Forse bisogna convincersi che non c’è un modo solo per parlare di una città, forse neppure di un paese, senz’altro non di una città mondo come Napoli
Forse bisogna convincersi che non c’è un modo solo per parlare di una città, forse neppure di un paese, senz’altro non di una città mondo come Napoli. Dunque bisogna ogni volta fare la tara a questo paradosso epistemologico: che diciamo “Napoli” quando si tratta di minori trucidati per nulla, e quando si tratta di over tourism. Bisogna dirsi che è successo in un luogo che per comodità geografica appartiene a un’estensione e quell’estensione noi la chiamiamo Napoli.
Così possiamo guadare questa esasperazione che rimbalza continuamente sui giornali, sui media, non da ora. Io scrivo di Napoli con Napoli su Napoli dal 2003, e già allora in una quarta di copertina l’estensore della stessa disse: «lontano anni luce dal folklore» che era un modo per mettere in sicurezza i lettori dal rischio eterno di cadere da una parte e dall’altra e nel mezzo di questa cosa che io pure abito e di cui pure dunque sono parte e che mi lascia attonita, sgomenta: la guardo e non sono capace di filtrarne le notizie, la ridondanza. La trovo bellissima e oscena, la bellezza è sempre bella? No, se sporco il Tondo Doni vedrò la sporcizia. E Napoli a volte è così, ma non sto parlando di munnezza vera, propria, particolare, interna nostra, diciamo, sto parlando di questa grande svendita al mercatone che se ne fa, che la sporca, la rende brutta. Perché ciò che è ingiusto è brutto, e se crolla il ballatoio di una Vela uccidendo dei bambini che vi si erano messi alla ricerca di un poco di fresco, ahimè quell’anno lì non c’è dibattito sul turismo che possa rimuovere il lutto, il dolore, l’ingiustizia.
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I ragazzi di Napoli e la sfida di vivere su una «corda tesa»Non entrerò, pure potrei, nei milioni di errori voluti o solo di negligenza che emergono vivendoci, condenso tutto in due frasi. Una è di una mia amica, una donna della mia età che vive nella “strada dei pastori” in un palazzo senza intonaco, senza ascensore, con una madre anziana e disabile, della cui pensione in parte vivono e in parte no.
Le dissi «certo è bella», e lei mi rispose. «è bella per che cosa? per farci la villeggiatura». Cioè le vacanze. Non stupiscono i dati del turismo, Napoli è gloriosa, magnifica, una regina inchinata nel letame, per farci le vacanze è meravigliosa.
E la seconda frase è di un utente di Facebook, si chiama Francesco Russo, dice: «Parthenope. Nessuna recensione al momento. Però se è doloroso provare nostalgia per una giovinezza piena di bellezza trascorsa tra Capri- Posillipo- Positano, immaginate quanto sia doloroso provare nostalgia per una giovinezza senza particolare bellezza trascorsa tra Secondigliano- Varcaturo- Piazza Carlo III».
Il riferimento è al film di Sorrentino, che io non ho visto. Però ho visto Re Chicchinella di Emma Dante al San Ferdinando, il teatro di Eduardo de Filippo, e l’ho trovato bellissimo. E’ ispirato a una delle favole de Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile, che pure sul finire del Cinquecento da Giugliano soffriva quello stesso dolore dell’utente di Facebook e cercava uno dei mille possibili modi per dirne grazia e disgrazia, e racconta questa storia: la storia di un re, appunto del regno di Napoli, che vive una dolorosa e buffa metamorfosi in una gallina. E tutto l’apparato attorno a lui lo tiene in vita per l’uovo d’oro che ogni mattina depone. Tutti vogliono l’uovo d’oro da Napoli, nonostante soffra e si imbruttisca e sia molto più gallina che re.
È una condizione comune a tante grandi città occidentali, imbarbarite dal capitalismo e dall’ingiustizia della fame, della miseria, che esso genera, ma insomma uscire dal teatro di Eduardo (che disse Fujtevenne, scappate) e ritrovare Basile per strada, grazie all’intuizione nera e arguta di Emma Dante, almeno dà una possibile chiave di interpretazione.
Quelle chiavi che nessuno ha, nessuno.
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