Visioni

«My Favourite Cake», la felicità rivoluzionaria

Una scena da «My Favourite Cake»Una scena da «My Favourite Cake»

Berlinale 74 In concorso il film di Maryam Moghaddam e Betash Sanaeeha, bloccati in Iran dal regime. Le loro sedie vuote durante la presentazione, con le dichiarazioni affidate agli attori protagonisti. Una donna sola dopo la morte del marito, l’incontro con un uomo, il futuro negato nella repressione iraniana

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 17 febbraio 2024

«Per molto tempo i registi iraniani hanno realizzato i loro film secondo regole estremamente complicate. Si deve rimanere sempre entro una linea rossa, superarla potrebbe rendere impossibile lavorare per anni. E si può arrivare anche a complicate cause giudiziarie. È un’esperienza dolorosa che conosciamo bene». È con queste parole che i registi iraniani Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha hanno accompagnato il loro film, My Favourite Cake, presentato ieri in concorso – che gli applausi alla fine della proiezione hanno posto subito in testa in un’ideale classifica delle prime visioni. Maryam e Behtash però non c’erano a ascoltarli, un’assenza annunciata e sottolineata dalle due sedie rimaste vuote perché diverse settimane fa sono stati raggiunti dal divieto di lasciare l’Iran e di viaggiare con la confisca del passaporto.

LE LORO DICHIARAZIONI le hanno affidate a Lily Farhadpour, la protagonista del film insieme a Esmal Mehrabi, entrambi magnificamente complici in un duetto che di «linee rosse» ne infrange parecchie (il film è stato girato pochi mesi prima le proteste contro l’uccisione di Mahsa Amini), affermando una visione critica e un fare cinema di resistenza. A cominciare dalla scelta di un personaggio femminile, una donna settantenne, che vive da sola, dorme fino a mezzogiorno – la notte soffre di insonnia – appare a casa senza velo, non si è mai risposata da quando, trent’anni prima, il marito è morto in un incidente, e a chi le chiede come mai si limita a dire che non ha trovato la persona giusta. La figlia è andata via dall’Iran, lei per la sua età non ha diritto a permessi di viaggio, per lo più le relazioni con lei e il nipotino adorato sono chiamate video frettolose e negli inciampi del quotidiano.

La giornata di Mahin (Lily Farhadpour) che inizia col tè e la sigaretta, si dipana fra le cure al giardino di cui è molto fiera, la spesa al mercato, le soap alla tv davanti alle quali piangere un po’. E la musica, ballare da sola, qualche pranzo con le amiche per sorridere della vecchiaia, dei malanni, e parlare degli uomini – che per non essere invisibili qualcuna vorrebbe ancora avere malgrado le critiche e le relazioni disastrose. È la solitudine il male più grande in una realtà che dalle piccole tracce oltre lo spazio domestico appare segnata da insofferenza, aggressività, paura, sospetto – la vicina ultra governativa pronta a spiare e a denunciare – specie verso una donna come Mahin che vuole essere malgrado tutto indipendente nella sua scelta e non riprendere un marito solo per non avere problemi.

Le amiche insistono, la spingono a uscire da quell’isolamento, così un giorno decide di provarci a incontrare qualcuno della sua età, qualcuno che le piace, con cui condividere, pure per un attimo il «dolce preferito» che ora cuoce soltanto per sé: una magnifica torta all’arancia. Nelle strade della città dove un tempo lei e le amiche rubavano alberi al parco – quelli del suo giardino arrivano da lì – e si vestivano per uscire, le ragazze vengono arrestate e picchiate dalla polizia morale per qualche ciuffo che esce dal velo e gli anziani, per lo più maschi nel ristorante dei pensionati, si lamentano delle loro pensioni. C’è però quel tipo seduto in disparte, un tassista, che attrae il suo sguardo. Lo aspetta, lo invita a casa, lui sembra stupito ma è come lei un solitario: perché non accettare quella proposta inaspettata? Mahin è emozionata, si veste con gli abiti che la figlia le ha regalato e fa suonare le canzoni preferite, cucina e finalmente può bere il vino rosso tenuto da parte e dividere quel dolce con un altra persona, vivere il suo momento di felicità: ma davvero è possibile?

Questa figura unica è di per sé rivoluzionaria – e pensiamoci, non è che neppure qui ci sono tanti personaggi di donne settantenni, con le attrici che diventano madri/nonne appena passati i quaranta. Come scrivono nelle note sul sito del festival gli autori «le donne in Iran sono considerate cittadine di seconda classe, private dei diritti hanno una identità unicamente attraverso gli uomini con cui vivono», e Mahin che «sceglie» l’uomo con cui passare quella serata afferma uno «scandalo».

MA C’È DELL’ALTRO che fa di My Favourite Cake un film politico, e senza schematismi, in un festival che sembra volersi fare portatore delle tensioni e delle fratture nel presente ancora prima del suo inizio. Ma che al tempo stesso sfugge al confronto con ciò che sta accadendo in Palestina, con la guerra di Israele, allineandosi al silenzio/censura sul tema che domina in Germania, cosa che gli ha attirato proteste e spinto tanti a non partecipare.

Sul palco inaugurale la ministra della Cultura, Claudia Roth, ha parlato citando Godard – il quale non sarebbe stato per niente d’accordo col contesto – del 7 ottobre, «un barbaro attacco terrorista di Hamas contro persone che festeggiavano pacificamente» – «Portateli a casa» – ha concluso. Ma ha anche voluto dire la «grande tristezza e preoccupazione» per i civili a Gaza, che hanno bisogno di aiuto, evitando qualsiasi critica ovviamente alle azioni militari israeliane. Nei giorni scorsi una lettera di alcuni lavoratori della Berlinale chiedeva invece il «cessate il fuoco» sollecitando il festival a prendere una posizione istituzionale più forte e chiara sui massacri a Gaza. A loro si sono aggiunti filmmaker e artisti, sottolineando come la Berlinale ha affermato sia rispetto la guerra in Ucraina che la situazione in Iran posizioni nette continuando qui a tacere – «La guerra a Gaza è totalmente ignorata» ha dichiarato a «Variety» Kamal Aljafari, regista palestinese basato da molti anni a Berlino.

NON BASTA insomma mostrare la realtà se poi quando scomoda vi si sfugge, affastellare film sulla contemporaneità e non farci i conti – il programma ci suggerisce appunto scelte di impegno, come l’altro film del concorso, La Cocina di Alonso Ruizpalacios. fracassonissima opera che in bianco e nero nella cucina di un locale a Times Square, New York condensa la lunga memoria di migrazioni che hanno formato gli Stati uniti.

Nelle loro biografie Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha affermano una presa di posizione. Lei ha lavorato con Jafar Panahi, il regista più punito dal regime di Teheran e in uno dei suoi film «clandestini», Closed Curtains, premiato qui alla Berlinale nel 2013, e il loro film precedente, Ballad of a White Cow, (2021) sulla pena di morte, è stato censurato in Iran, e gli è costato. Quale è dunque il gesto dirompente e politico che porta in sé di questo personaggio femminile mai visto sullo schermo? Non si tratta semplicemente della violenza di ogni giorno, anche nelle piccole cose, è una dimensione più vasta che la loro narrazione mette in campo e che riguarda quel lavorio costante di repressione e controllo che porta alla follia, alla perdita di sé, al conformismo più inquisitorio. Qualcosa di strisciante che la felicità la soffoca, che mortifica la leggerezza, le possibilità, gli errori, i gesti semplici, ordinari. Ma non era proprio contro questa negazione del respiro di ogni esistenza che per mesi hanno lottato e continuano a lottare le ragazze e i ragazzi in Iran? Senza cambiamento non ci può essere futuro, loro lo sanno e per questo continuano a resistere.

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