Laura Rosenberger a Taiwan. Daniel Kritenbrink a Pechino. Il giorno dopo la conclusione dello Shangri-La Dialogue a Singapore, gli Stati uniti muovono le pedine su entrambe le sponde dello Stretto, mandando in missione la presidente dell’American Institute in Taiwan e l’assistente del segretario di Stato per gli affari di Asia orientale e Pacifico. Obiettivo: riavviare i canali di comunicazione e scongiurare un ipotetico conflitto che sarebbe «devastante». È questa l’unica cosa su cui sono sembrati d’accordo Lloyd Austin e Li Shangfu, capo del Pentagono e ministro della Difesa cinese, protagonisti di tre giorni di manovre contrapposte al summit sulla sicurezza asiatica.

«In fondo, la guerra fredda ha fatto anche cose buone», si è sentito d’altronde ripetere due volte allo Shangri-La Dialogue, come fosse un modello di riferimento. Sia John Chipman, a capo dell’istituto che organizza il vertice (IISS), sia il ministro della Difesa di Singapore, Ng Eng Hen, fanno riferimento all’accordo firmato da Usa e Urss sulle armi nucleari. Il ministro della città-stato ha sciorinato i dati dell’aumento esponenziale delle spese militari, sottolineando che in assenza di dialogo e pratiche condivise si rischia una nuova corsa al riarmo. Per poi ricordare, sulla falsariga di quanto fatto anche dall’indonesiano Prabowo Subianto: «Questa regione ha subito conseguenze devastanti dello scontro tra potenze», ammonisce. Tra i corridoi dello Shangri-La c’è chi abbozza una possibile nuova cortina di ferro, o meglio d’acqua: «Il Pacifico a ovest di Guam agli Usa, il Pacifico a est di Guam alla Cina». Il padrone di casa non ci crede: «Usa e Cina sono qui per restare, devono trovare il modo di convivere in questa regione».

DAL VERTICE NON ARRIVANO segnali positivi in tal senso. Austin ha criticato i «tentativi di cambiare lo status quo» di Pechino su territori e mari contesi. Li ha accusato gli Usa di portare instabilità e caos con una «mentalità da guerra fredda». Ancora una volta, al centro della discordia c’è Taiwan. Dopo la collisione sfiorata tra navi sullo Stretto, Li ha giustificato la manovra: «Gli Usa usano la libertà di navigazione come pretesto per esercitare egemonia. Come evitare incidenti? Non si navighi troppo vicino al territorio cinese». Parole che lasciano presagire altri rischi in caso di nuovi transiti.

C’è chi sembra dargli ragione. Per esempio José Ramos-Horta. Il presidente di Timor Est giustifica l’avvicinamento del Sud globale alla Cina: «In tanti erano stati lasciati soli, con Pechino non lo sono più». Poi chiede a «soggetti esterni» di «evitare azioni provocatrici» su Taiwan. Più cauti del previsto i rappresentanti di Giappone e Corea del sud, così come il Vietnam. Molto audaci le Filippine, che hanno partecipato per la prima volta a un quadrilaterale con Usa, Giappone e Australia, facendo un altro passo verso i meccanismi di piattaforme di sicurezza come il Quad.

A Singapore l’unico dialogo tra Usa e Cina è stato quello tra i capi dell’intelligence, che hanno partecipato a quello che Reuters ha definito «conclave segreto». Segnale che i canali diplomatici ufficiali sono seriamente deteriorati. I delegati cinesi spiegano che senza la rimozione delle sanzioni a Li sarà complicato riaprire i colloqui militari. La sua recente nomina a ministro è funzionale a convincere Washington ad accettare gli ufficiali scelti da Pechino, dunque il suo modello di sviluppo. Li ha non a caso insistito sul concetto di «mutuo rispetto».

ENTRAMBE LE PARTI sembrano comunque provare a capire come continuare a parlarsi. Del viaggio di Kritenbrink si sa poco, se non che è accompagnato da Sarah Beran, direttrice per gli affari di Cina e Taiwan del Consiglio di sicurezza nazionale. Obiettivo: «Discutere di questioni chiave nelle relazioni bilaterali». Il ruolo di Beran e la contemporanea visita di Rosenberger a Taipei fanno capire che lo Stretto sarà in cima all’agenda. Non con la pretesa di trovare un accordo, ma magari di “sistematizzare” in qualche modo il disaccordo.