«La Turchia non è e non sarà la sala d’attesa dei profughi per nessun Paese. Continueremo a fare tutto ciò che è in nostro potere per preservare la sicurezza dei nostri confini», ha assicurato nei giorni scorsi il responsabile della comunicazione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan.

L’irritazione del funzionario è diretta verso gli Stati uniti che hanno chiesto a una serie di Paesi, tra i quali appunto la Turchia, di esaminare le domande di ricollocamento degli afghani che negli anni passati hanno collaborato con le forze americane e che oggi – in attesa di un visto che gli consenta di fuggire con le famiglie negli Usa – sono minacciati dall’avanzata dei talebani. Ma non sono certo questi, per quanto numerosi possano essere, a preoccupare davvero Ankara. Da quando le truppe occidentali hanno annunciato il ritiro graduale dal Paese asiatico, e in particolare da quando i talebani hanno cominciato a conquistare una dopo l’altra le principali città afghane avvicinandosi sempre più alla capitale Kabul, Erdogan ha capito che avrebbe potuto trovarsi a dover gestire un altro fiume di gente disperata in fuga come avvenne nel 2015 con i profughi siriani. Per questo ha dato ordine di accelerare al massimo la costruzione di un muro al confine orientale con l’Iran, 300 chilometri circa di cemento con torri di controllo e riflettori protetti dall’alto come dal basso da sensori wireless. Come se non bastasse verrà impiegato anche l’esercito che avrà il compito di allestire posti di blocco nelle città delle provincie interne. «Tutte le misure necessarie sono state prese in tempo», ha assicurato il ministro della Difesa, Hulusi Akar, neanche dovesse fronteggiare le armate dei talebani, con i quali Erdogan vorrebbe invece trattare, e non uomini, donne e bambini stanchi, affamati e terrorizzati.

Il problema è che dopo aver trattato nel 2016 con l’Unione europea per fermare il flusso dei profughi siriani ottenendo in cambio nove miliardi di euro (sei iniziali più altri tre miliardi fino al 2023 recentemente approvati dalla Commissione) adesso il presidente deve fare in conti con le critiche di chi, all’interno del Paese, è stanco di dover convivere con milioni di profughi accolti in nome della «fratellanza» islamica. In Turchia si trovano infatti quasi 4 milioni di rifugiati, 3,6 milioni dei quali sono siriani. Circa centomila gli afghani, arrivati negli anni scorsi e rimasti bloccati nel Paese dove, come tutti gli altri, sopravvivono come possono. Il timore adesso è che attraverso l’Iran ne possano arrivare altre decine e decine di migliaia.

Secondo alcune fonti finora sono riusciti a passare la frontiera tra i 500 e i 2.000 afghani al giorno. Molti, come ha ricordato tre giorni fa lo stesso Erdogan per rispondere alle critiche, vengono catturati e riportati in Afghanistan, ma altrettanti riescono a passare. Sui social girano video e fotografie in cui si vedono un gran numero di persone camminare in fila indiana lungo le strade in Iran, a poche centinai di metri da confine turco.

Immagini che, come è facile immaginare, alimentano tensioni e intolleranza in un Paese che deve fare i conti anche con una forte crisi economica. Come conseguenza non sono mancati atti di violenza contro i profughi, come la folla che ad Altindag, uno dei distretti della provincia di Ankara, stando a quanto riportato da alcuni giornali avrebbe preso d’assalto durante la notte negozi e case di proprietà di alcuni siriani in seguito a una rissa nella quale avrebbe perso la vita un giovane turco.