Visioni

Mundruczo, Lav Diaz, Hintermann: l’immaginario scende in laguna

Mundruczo, Lav Diaz, Hintermann: l’immaginario scende in laguna

Venezia 77 Un'edizione difficile sotto il segno della pandemia, un percorso di registi, idee e proposte nelle varie sezioni

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 2 settembre 2020

Un versante attraente, spesso latente, che affiora in modo evenemenziale dalla congerie delle programmazioni dei festival cinematografici è quello rappresentato da un cinema laconico, in preda all’avampare di segni filmici, dell’esserci iconografico anziché alla determinazione dialogica, narrativa; qualcosa che deve molto ai miracoli, alla flagranza miracolosa rosselliniani; agli enigmi di Antonioni; a certa sacralità estesa da Dreyer a Tarkovsky; ai piani-sequenza secolarizzati di Angelopoulos o Bela Tarr e così via.

IN QUESTA strana, difficile edizione della Mostra di Venezia, sarà forse il cinema di Mundruczo (in concorso con Pieces of a woman) sempre attento a soluzioni formali inedite e proprio rispetto a una densità, a una stratificazione dell’immagine già mostrate in film come Delta, immagine-fiume, immagine palustre esalante una sessualità appiccicosa e una violenza senza rimedio; quello di Amos Gitai, soprattutto se nel film assonante che presenta in concorso (Laila in Haifa) la vena sarà la stessa di un film passato a Venezia qualche anno fa, Ana Arabia.

LUNGOMETRAGGIO il cui finale era un sorvolo vertiginoso e struggente sulla città da parte della macchina da presa che sembrava quasi uscire dalla Storia per divenire gesto lirico a volersi confondere con l’evanescenza dell’orizzonte. Nelle Giornate degli autori le attese maggiori dal punto di vista della complessione, dell’aseità dell’immagine, le attese sono per i fratelli De Serio e il loro Spaccapietre, rappresentanti di un cinema d’attriti, di atmosfere, di resistenze: un universo che è nella misura dei corpi pervicaci, declinati nel contemporaneo più tumido, alla ricerca di un’identità e di un posto in cui stare, s-comparire, sotto il peso del tempo.

NEMESI del sorrentinismo (fatto di nani, rockstar, papi vanesi e sante suore, personaggi totalmente incongruenti e che sarebbero tali anche se si trattasse della favola più stravagante) questo cinema mostra esseri e spazi comuni, denudati, in procinto di crollare, e perciò assoluti, emblematici di uno stare essenziale al mondo, nel fango del mondo cercando di intravedere un qualche orizzonte al di là di questo livore tetragono, come accadeva in Sette opere di misericordia. Dopo il leone d’oro vinto nel 2016 torna Lav Diaz (in Orizzonti), forse il regista che più di ogni altro riesce a scolpire oggi il tempo, distillando spazi quasi trasumananti ma a partire da una condizione umana troppo umana, da un inradicamento, da radici, polvere, terre desolate o arborescenti, senza dimenticare lo scenario stupefacente di Storm Children, così intriso, grondante, da sembrare onirico.
Del resto anche un film dall’afflato più narrativo come The Woman Who Left manteneva fermo lo sguardo sulle cose taglienti, urtanti e poetiche, al limite deliranti ma per eccesso di realismo, di dettaglio, come nel Flaubert più estremo, ché non mi viene in mente un termine di paragone cinematografico, il che è indicativo della singolarità di questo regista. È prendendosi tutto il tempo necessario, cioè facendolo straripare rispetto alla misura, che Lav Diaz ridà poesia, immaginazione, materia incandescente alle cose, facendole bisbigliare come in una nenia o urlare nelle pieghe sottese della «pellicola». Le stesse da cui sembrano risuonare già da tempo ormai, con straordinaria coerenza, le immagini di D’Anolfi e Parenti, sempre in Orizzonti con Guerra e Pace dopo essere stati in concorso con Spira Mirabilis: un cinema della materia oscura, di enigmi fosco-luminosi, che cerca di arrivare con metodo ragionato alle origini insondabili, irragionevoli dell’umano e, al limite, del cinema.

VENENDO alla Settimana Internazionale della Critica(fucina di talenti visivi negli ultimi anni se penso almeno a Helena Wittmann o, in altro modo, a Mandico presente quest’anno in Orizzonti con The Return of Tragedy), nell’ottica di questa prestanza, che poi è sempre aporia visuale, spicca in apertura, fuori concorso, The Book of Vision di Carlo Hintermann, autore dalla sensibilità malickiana, musicale, lirica; e il lituano Marat Sargsyan con The Flood Won’t Come. Per il resto staremo a vedere, sempre che si riesca a vederli i film, tra prenotazioni trafelate, server pronti a crollare al primo affollamento, e innumerevoli altre precauzioni contro il Covid-19 che sanno sempre più di di ingiunzione e minaccia alla sopravvivenza dei festival.

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