L’albero che respira, sdraiato lungo tutta la superficie del padiglione del Regno dell’Arabia Saudita in occasione della 59. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia – la mostra Muhannad Shono. The Teaching Tree è curata da Reem Fadda con la collaborazione di Rotana Shaker e supportata dalla Visual Art Commission – ha un che di preistorico con quelle sue fronde che si muovono espandendosi e contraendosi, come un naturale meccanismo di inspirazione ed espirazione. Muhannad Shono (Riyadh 1977, vive e lavora a Riyadh) definisce l’opera «l’incarnazione vivente del potere resiliente della creatività e dell’immaginazione nel tentativo di tacere la restrizione della mente umana con un’installazione che non si può negare». Camminiamo e parliamo nell’ambiente all’Arsenale, girando intorno a quest’incarnazione della dicotomia di naturale e artificiale, creazione e distruzione, affermazione e negazione. Per il suo «albero dell’apprendimento» Shono, che ha una formazione in architettura e dal 2015 è presente sulla scena artistica si è ispirato in parte alla figura misteriosa di Al-Khidr detto «l’uomo verde». Questo personaggio del Corano descritto come servitore di Allah che incontra Mosé, poi «esportato» con una certa fortuna nella letteratura indiana e persiana, stando a quanto riportato dall’Imam Bukhari veniva chiamato così dal Profesta «perché una volta sedeva su una terra arida e bianca, dopo ciò questa terra diventò di un verde lussureggiante di vegetazione». Evidente metafora della ricerca della verità e della conoscenza nel magma dell’ignoranza.

«The Teaching Tree» è come una lunga linea nera che attraversa lo spazio…

Ho iniziato da una linea – una singola linea – che è diventata un insieme di molteplici linee, di percorsi trasformati in sequenze con un movimento che viene ribadito. L’uso della palma è molto importante, la natura che brucia fa parte dell’idea dell’accettazione del cambiamento. In questo contesto con gli pneumatici è anche l’espressione della provenienza di spiriti creativi che qualche volta vengono alimentati dalle restrizioni. Le limitazioni stesse possono portare a creazioni più forti e resilienti. Certe volte abbiamo bisogno dei «mostri» per combatterli al fine di creare «mostri di espressione». L’opera respira perché è un’immaginazione vivente. Nonostante il passato, porta a immaginare e porsi domande rispetto a nuovi mondi. Il lavoro esiste per questo. È il tentativo di aggirare la restrizione e abbracciare il potere dell’espressione di interpretazioni molteplici e comprensioni al di là dei limiti della mente umana. Una singola linea che «brandisce» l’inchiostro che è nero perché si pone domande su chi sia a controllare il messaggio e la creatività.

Muhannad Shono foto di Manuela De Leonardis

Intende la censura?

In un certo senso sì, la censura. Ma non vorrei usare questa parola perché cerco di spostarmi da certi stereotipi rispetto a chi siamo in Arabia Saudita.

In quest’opera qual è la relazione tra artificiale e naturale?

Per me l’aspetto artificiale o meccanico non è quello più profondo del lavoro. È solo la risposta di ciò che l’installazione vuole essere. Il respiro arriva dal meccanismo. Durante il processo creativo richiede ascolto perché vuole diventare qualcosa che non posso forzare ad essere diverso: prova a dirmi come vuole manifestarsi, un po’ come altri aspetti della creatività. Le palme, invece, sono in relazione all’apprendimento che arriva dalla natura.

Le palme sono naturali?

Sì tutte le palme sono naturali e sono diventate nere come un tratto d’inchiostro, una pennellata, una parola. Provano a spostarsi da qualcosa di rigido a qualcosa di fluido. È come una foresta dell’immaginazione che viene bruciata dai «mostri», ma che malgrado la loro volontà diventa un terreno futuro che permette a nuove forme espressive di crescere con più forza. È realmente un atto di resistenza della creatività, ma è anche la trama e la sequenza temporale dell’inizio della mia storia verso qualcosa che è cresciuto attraverso il desiderio di raccontare storie pensando in modo diverso.

Ha iniziato a raccontare storie attraverso il linguaggio del graphic novel…

Sì, sono partito da lì: costruendo una linea per raccontare storie. Sono diventato davvero pressante su chi controllava la linea, il messaggio, la trama, ma ero anche consapevole di chi ha il potere di creare altri immaginari, altre soluzioni connesse con il reale. Certe volte fuggiamo dalla nostra immaginazione per rifuggire dalla realtà, ma nel nostro mondo immaginifico possiamo dare una diversa interpretazione a quello che può essere il reale. Ho capito quando provare a ridurre, limitare la parola o l’immagine e – già dall’infanzia – l’uso e il potere della linea evidenziata, così come l’uso e il controllo dell’inchiostro.

Invece, nell’opera cinetica On losing meaning (2021), commissionata dalla Diriyah Biennale Foundation, c’è il riferimento alla scrittura automatica attraverso l’azione di un robot…

Quest’opera parla di una parola simbolica che non ha ancora una definizione ed è alla ricerca del suo significato attraverso l’azione performativa del «mark-making». L’ironia è che ci sono molte più fonti e molti più segni che mi mischiano prima che ci si allontani dalla forma simbolica e che questa perda la sua definizione. È qualcosa di illusorio.

Solitamente nel suo lavoro parla di dislocamento in relazione alla aua storia personale…

Sì, i miei genitori e i miei nonni sono immigrati siriani e prima ancora dal sud della Russia È veramente una lunga linea di dislocamento e negoziazione dell’identità, considerando che sono nato in Arabia Saudita e ho cercato il mio luogo e la mia voce attraverso la lingua e l’espressione visuale. Il viaggio della comprensione dell’identità è diventato importante attraverso il sentimento dell’essere dislocato e delle cause e circostanze che non posso controllare e che portano le persone a lasciare le loro case per andare in altre terre: il ciclo della dislocazione, del cercare una casa e del sentirsi nuovamente dislocato. Un ciclo che vediamo ripetersi ovunque, soprattutto al giorno d’oggi.