«Lascia stare il motore, rema!». Vladimir urla a Ivàn che continua a tirare la corda mentre il motore emette un rumore sordo e tutto intorno l’aria trema. I russi hanno iniziato a bombardare Kherson intorno alle 13 di ieri, mentre la maggior parte dei volontari era in acqua per effettuare le evacuazioni. Al terzo giorno continuano, nonostante gli oltre 16mila sfollati e i 600 kmq di territorio inondato. Il numero dei morti per ora resta sconosciuto.

UNA SALVA, due salve, ancora e ancora. A ogni sibilo dei razzi sparati dall’altra sponda del fiume i ragazzi si piegano in avanti nel gesto istintivo di riparare la testa. Siamo dietro un palazzo, all’interno di un comprensorio di epoca sovietica e l’acqua è talmente alta che navighiamo allo stesso livello delle finestre dei primi piani. Le tettoie dei negozi e degli ingressi su strada sono usate dai volontari come molo. I gommoni li assicuriamo alle inferriate antifurto delle finestre o alle grondaie mentre i volontari fanno i funamboli sulle tubature del gas (che nella maggior parte delle città ucraine non sono interrate) e sui cornicioni. Per entrare negli edifici a volte bisogna frantumare i vetri delle finestre, rompere un pezzo di muro e scardinare le inferriate o tentare dalla tromba delle scale. Dai passaggi così creati escono anziani e madri con bambini al seguito. «Aspettate ancora» urlano. E cercano di afferrare un altro bustone con i propri averi. Stupirebbe vedere quanto spesso dentro questi pacchi enormi non ci sono beni fondamentali ma cose ordinarie, a volte interi corredi di coperte o vestiti, altre volte giochi per i bambini.

UNA DONNA e sua figlia piccola, rimaste sedute su una tettoia per tutto il tempo dell’evacuazione, appena ricominciano i boati spariscono all’interno del palazzo attraverso una finestra come risucchiate. Ci avviciniamo per chiamarle e portarle vie, nessuna risposta. «Uno solo» urla una signora che tenta di sfuggire alla morsa di un volontario per afferrare un altro pacco, ma il volontario la solleva quasi da terra per farla entrare nel gommone e portarla via. Loro il motore ce l’hanno e gli funziona, ci superano mentre noi remiamo fino ai crampi per raggiungere quella che una volta era una strada in salita.

Kherson è impressionante, la parte bassa della città è completamente sommersa per oltre tre metri, in alcuni punti fino a cinque metri. I rami alti degli alberi si curvano sull’acqua come foreste di mangrovie, affiorano le punte dei cartelli stradali, le onde dei gommoni più grossi scoprono le tettoie delle fermate del tram che riflettono al sole, come fossero isolotti di sabbia. I negozi sono spariti, le strade sono solo un concetto che si ricorda quando ci si pensa. Altrimenti, remare tra l’angolo di un palazzo e l’altro sembrerebbe naturale. Solo che al di sotto della superficie non c’è la laguna di Venezia, ma case, marciapiedi e panchine. Ogni tanto ci si deve abbassare quasi fino a toccare con il petto l’imbarcazione per evitare i cavi della media tensione che pendono minacciosi sull’acqua. «Ma sei scemo, lo sai che il remo è di alluminio, vuoi friggere?» dice un militare all’altro mentre ci passano accanto.

A RIVA, ovvero dove la strada è abbastanza alta da non essere allagata, si scende in fretta e ci si butta in acqua, chi con le calosce, chi in ciabatte e molti a piedi scalzi. Corriamo verso un palazzo accanto al gazebo dei volontari che si occupano delle evacuazioni. Decine di persone accucciate tra le colonne, i bombardamenti non cessano. Quando si interrompono la stessa signora della busta evacuata poco prima chiede a una ragazza: «Hanno finito?», «non lo so ma non penso» risponde la ragazza, «forse si stanno prendendo solo del tempo per ricaricare» dice ridendo, «ma quanto?» insiste l’anziana, «10-15 minuti forse», «allora, forse facciamo in tempo a tornare a prendere le mie cose». Un’altra signora, con un lungo vestito a fiori blu, esce dal rifugio, fa due passi e rimane pietrificata. I bombardamenti riprendono e sul suo volto si imprime un terrore che spaventa di rimando. Corre indietro, salta quasi, ma i volontari urlano in coro «questa-era-nostra» cadenzando le parole e ridendo per sdrammatizzare. Un po’ ci riescono. Un ragazzo tedesco vestito d’arancione, volontario, si avvicina per dirci di stare riparati e fare due chiacchiere. A fine giornata scopriamo che è tra i tre feriti.

IN QUESTO CAOS c’è anche chi si occupa di evacuare animali domestici. Partono dai punti di raccolta con gommoni e barchette carichi di gabbie e mangime e navigano nei palazzi come gli altri. Molti, la maggior parte forse, non hanno mai usato un motore nautico e gli incroci sono piene di ragazzi in piedi che tirano la corda fino allo sfinimento ma finiscono per ingolfarli definitivamente. Accompagno Vlad e Vlad verso un appartamento dal quale, dicono, hanno tratto in salvo «più di 40 gatti». L’ultimo non vuole uscire, allora rompono dalla finestra e dalla casa esce un odore terribile di feci e chiuso, ma l’alluvione c’entra poco, quelle finestre non erano aperte da anni. Recuperano altri tre gatti rischiando di vomitare e torniamo indietro. Perché non si dedicano alle persone con lo stesso impegno e determinazione non è chiaro, ma sono talmente concentrati sulla loro missione che non glielo chiedo.
Verso sera si alza una spessa coltre nera dall’altra parte della città, un colpo potente ha dato origine a un grande incendio che copre a poco a poco l’orizzonte verso est.