Morire nel triangolo africano del jihadismo
Burkina-Mali-Niger Sotto il Sahel è in corso una sorta di guerra mondiale africana, con gruppi jihadisti, contingenti militari internazionali e relativi interessi geopolitici, economici e securitari. Anche l’Italia è coinvolta visto che ha deciso di inviare 200 soldati e stabilire una base militare in Niger nell’ambito della missione Takuba, sulla scia dei francesi e di qualche appetitosa commessa militare
Burkina-Mali-Niger Sotto il Sahel è in corso una sorta di guerra mondiale africana, con gruppi jihadisti, contingenti militari internazionali e relativi interessi geopolitici, economici e securitari. Anche l’Italia è coinvolta visto che ha deciso di inviare 200 soldati e stabilire una base militare in Niger nell’ambito della missione Takuba, sulla scia dei francesi e di qualche appetitosa commessa militare
Lontano, lontano nel mondo, i giornalisti muoiono e saranno rapidamente dimenticati, come facilmente si dimenticano i morti e i posti lontani. Sta a noi decidere se anche questa volta sarà così. Ma il «triangolo del jihadismo», tra Burkina Faso, Mali e Niger, non è una faccenda che si liquida con un pezzo di cronaca.
In Burkina Faso sono stati assassinati due spagnoli, il documentarista David Beriain e il cameraman Roberto Fraile, insieme all’attivista irlandese Rory Young della ong Wildlife. Stavano realizzando un reportage sulla caccia di frodo nell’est del Paese.
L’agguato è stato rivendicato da un gruppo vicino ad Al Qaeda: forse non è ancora ben chiaro ma sotto il Sahel è in corso una sorta di guerra mondiale africana, con gruppi jihadisti, contingenti militari internazionali e relativi interessi geopolitici, economici e securitari.
Anche l’Italia è coinvolta visto che ha deciso di inviare 200 soldati e stabilire una base militare in Niger nell’ambito della missione Takuba, sulla scia dei francesi e di qualche appetitosa commessa militare.
Naturalmente all’opinione pubblica italiana il tutto viene occultato in qualche riunione della presidenza del consiglio dove far passare questa missione come una sorta di atto dovuto all’impegno nell’Unione europea e alla necessità di controllare i flussi migratori che dall’Africa occidentale percorrono le rotte del Sahel per risalire la Libia e arrivare alle coste mediterranee.
Ma questa non è un’operazione di «polizia», è una vera e propria guerra che da anni tiene impegnati 5mila soldati francesi e altre migliaia di soldati africani nel triangolo del jihadismo tra Mali, Niger e Burkina Faso.
I francesi, che hanno subito molte perdite, avevano trovato una soluzione per ridurre il loro contingente ricorrendo agli europei e soprattutto a 1.200 militari ciadiani inviati dal presidente Idriss Déby, ucciso una decina di giorni fa per le ferite riportate – secondo la versione ufficiale – negli scontri con il Fronte dei ribelli che hanno le retrovie tra l’etnia gorane, i Tebu della Libia.
In realtà emergono informazioni sempre più preoccupanti sul sistema di sicurezza occidentale nel Sahel gestito dai francesi. Idriss Déby, autocrate implacabile, era uno degli attori principali della vasta scacchiera geopolitica dell’Africa sub-saheliana. Negli anni Ottanta si era distinto per avere respinto nel Nord del Ciad le truppe di Gheddafi appoggiate dai sovietici.
La retrovia del deserto libico del Fezzan e quella sudanese erano stati poi decisivi per la sua ascesa e la cacciata da N’Djamena nel ’90 del suo antico mentore, il presidente Hissene Habré. Fino al 2011 quando si era schierato con la Francia contro Gheddafi per poi oscillare in alleanze prima con le brigate filo-Misurata e poi con quelle che appoggiano il generale della Cirenaica Khalifa Haftar sostenuto anche dalla Francia, oltre che da Russia, Egitto ed Emirati.
Déby seguiva il ruolino di marcia dei francesi che lo tenevano in piedi. E Parigi si preparava probabilmente a manovrarlo anche sul fronte della nuova guerra fredda libica tra Erdogan, padrone della Tripolitania, e la Cirenaica dove i mercenari russi sostengono Haftar. La sua scomparsa ha aperto il vaso di Pandora del Sahel.
Macron è volato in Ciad per i suoi funerali al fianco del successore di Déby, il figlio Mahamat sostenuto da una giunta militare. Ma dopo aver dichiarato che Parigi «non permetterà a nessuno di minacciare il Ciad», presa di posizione interpretata come un appoggio alle nuove autorità, Macron ha cambiato radicalmente tono.
Parlando sulla scalinata dell’Eliseo al fianco del presidente della Repubblica democratica del Congo Félix Tshisekedi, ha condannato «con la più grande fermezza la repressione» dei manifestanti a N’Djamena e dichiarato di non essere favorevole al «piano di successione», prendendo le distanze in questo modo dal figlio di Déby.
Perché questa ambiguità francese? Il Ciad è precipitato in una sorta di guerra civile non troppo strisciante e non ha nessuna intenzione in questo momento di mandare altri militari a combattere i jihadisti. Dai qaedisti ai Boko Haram nigeriani, se ne sono accorti e approfittano della situazione per imbastire nuove azioni militari.
Ecco perché sono usciti dalla «brousse» per attaccare i giornalisti spagnoli: nel Burkina Faso il governo è con le spalle al muro e si moltiplicano le voci di patti di non aggressione, anche su base locale, con i jihadisti.
La Francia ondeggia e gli Stati uniti di Biden intuiscono che «FranceAfrique» barcolla: quale migliore opportunità per «aiutare» Macron? È in posti come questi, lontano dal mondo e vicini alle superpotenze, che si muore.
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