Monsignor Alvarez: «Me ne vado solo le me lo ordina il papa»
Nicaragua Sembrava tutto pronto per far uscire dal carcere il vescovo di Matagalpa
Nicaragua Sembrava tutto pronto per far uscire dal carcere il vescovo di Matagalpa
«Me ne vado dal mio paese solo se me lo ordina papa Francesco». Così ha fatto sapere il vescovo Rolando Alvarez dopo che in questi ultimi giorni si erano rincorse le voci di una sua liberazione. Sempre che accettasse di lasciare il Nicaragua dove il regime di Daniel Ortega lo ha condannato a 26 anni di carcere per “cospirazione contro la sovranità nazionale”.
Tutto è nato con la recente visita di Lula a papa Francesco, dopo la quale il presidente del Brasile ha riferito che avrebbe cercato di convincere Ortega a rilasciare il prelato. La Corte Interamericana per i Diritti Umani aveva appena sollecitato l’immediato rilascio di monsignor Alvarez. Il negoziato fra la Santa Sede e il Nicaragua (che nel marzo scorso aveva rotto le relazioni col Vaticano) si è così infittito. Sembrava ormai cosa fatta, e che l’ecclesiastico avesse già lasciato il carcere di massima sicurezza de La Modelo (dove si trova in isolamento). E che un aereo fosse persino pronto per trasferirlo a Roma.
Ma il presule ha rinnovato il suo diniego ad andarsene. Come nel febbraio scorso quando, giunto all’aeroporto dagli arresti domiciliari in cui si trovava dall’anno prima, capì che lo volevano far salire sul volo speciale con a bordo gli altri 222 detenuti politici (di tutte le tendenze, ex dirigenti sandinisti della rivoluzione in testa) che dopo intense trattative prendevano la via degli Stati uniti. Così affermò allora monsignor Alvarez: «Non ho commesso alcun reato e come cittadino nicaraguense voglio rimanere qui». Col risultato di finire subito in galera e processato; oltre a venire assurdamente privato della nazionalità insieme a quegli ex prigionieri e ad altri 93 oppositori fuggiti precedentemente all’estero.
Così che ora vigono il caos e l’incertezza più assoluta sulla vicenda. Con Ortega e soprattutto la sua copresidente e consorte Rosario Murillo (soprannominata laggiù la “papessa” per avere a carico le questioni stato/chiesa), che speravano di essersi tolti definitivamente di torno il personaggio più ingombrante.
Mentre papa Francesco, che già aveva menzionato recentemente in un Angelus il «caro amico» monsignor Alvarez, non potrà certo ordinargli di lasciare il Nicaragua. Senza contare il resto del contenzioso con cinque preti detenuti, un’ottantina fra religiosi e monaci (soprattutto nicas) espulsi oltre frontiera e il congelamento di proprietà e conti correnti di diocesi, parrocchie e congregazioni. Per finire con la chiusura delle radio cattoliche e la promozione provocatoria da parte del governo dei predicatori delle sette fondamentaliste.
D’altro canto l’istituzione ecclesiastica è rimasta l’unica entità fuori dal controllo assoluto della coppia presidenziale, dopo la messa al bando di partiti, sindacati, stampa, società civile organizzata, e di tutte le ong colpite dalla legge di Regolazione degli Agenti Stranieri (importata dalla Russia) che ha coinvolto persino la Croce rossa internazionale. Senza contare la massiccia emigrazione spontanea di almeno 250mila nicaraguensi dalla rivolta popolare del 2018.
Il clan orteguista comincia comunque a registrare importanti defezioni al suo interno. Con rimozioni di dirigenti della polizia e del sistema giudiziario dopo che diversi di loro sono clandestinamente fuggiti all’estero. Ma soprattutto si moltiplicano i malumori nelle file dell’esercito (unico soggetto non sottoposto alle sanzioni ad personam di Usa e Ue) dietro al quale si muove il fratello di Daniel Ortega, l’ex generale Humberto, antagonista della cognata. E se i variegati oppositori all’estero faticano ad organizzarsi dopo che diversi di loro sono stati espropriati dei propri beni in Nicaragua, il rischio di implosione del regime cresce.
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