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Mohamed Kordofani: «Solo riconoscendo i nostri difetti in Sudan verrà la pace»

Mohamed Kordofani: «Solo riconoscendo i nostri difetti in Sudan verrà la pace»Mohamed Kordofani e il cast durante la presentazione del film a Cannes – foto di Maxence Parey

Cannes 76 Intervista con il regista di «Goodbye Julia», presentato a Un certain regard. Primo film sudanese mai selezionato al festival, tematizza il razzismo radicato nel nord del Paese nei confronti di chi proviene dal sud attraverso il rapporto tra due donne, una islamica e una cristiana

Pubblicato più di un anno faEdizione del 26 maggio 2023
Una scena del film

«Provo emozioni contrastanti, da una parte sono profondamente onorato e felice di essere a Cannes, ma dall’altra sono addolorato per quello che sta accadendo in Sudan e con il cast non possiamo goderci a pieno questo momento» spiega Mohamed Kordofani, regista di Goodbye Julia, presentato a Un certain regard. Oltre a essere il suo esordio nel lungometraggio, è anche il primo film sudanese ad essere mai stato presentato al festival. Ambientato all’inizio degli anni duemila, racconta la storia di due donne, Mona, islamica, originaria di Khartoum, e Julia, cristiana e proveniente dal sud. Tra loro si stringe un rapporto che mette in discussione il razzismo profondamente radicato nella popolazione della capitale – di cui il regista fa parte – spingendo la benestante Mona, oppressa da un marito-padrone e da tradizioni religiose asfissianti, a cominciare una nuova vita, mentre il sud del Paese sceglie la via dell’indipendenza con il referendum del 2011. Un racconto denso a livello emotivo e sorprendente nella riuscita considerate le difficoltà incontrate da Kordofani.

Quanto c’è di personale in questo film?

Moltissimo, i personaggi rispecchiano me stesso in diverse fasi della vita, sono un’altra persona rispetto a quella di vent’anni fa e queste trasformazioni progressive mi sembravano un soggetto interessante su cui scrivere. Molte persone non saranno felici di come il film ritrae alcuni personaggi ma io credo che oggi sia necessario aprire le nostre ferite piuttosto che essere diplomatici. Questo lavoro restituisce la prospettiva di un individuo del nord, siamo noi a dover mettere a fuoco i nostri difetti, ovvero il razzismo con cui per molto tempo abbiamo stigmatizzato chi viene del sud. Solo così si potranno evitare altre guerre.

Hai affrontato delle sfide sul set?

Sì, perché in Sudan non c’è alcuna industria cinematografica e quindi nessuna infrastruttura, non ci sono crew per filmare, equipaggiamento tecnico o procedure amministrative. Ho cambiato la mia vita nel 2019, ero un ingegnere aeronautico, ma dopo la rivoluzione ho deciso di tornare e diventare regista fondando la mia casa di produzione con un gruppo di giovani pieni di energia che aspettavano solo un contesto in cui lavorare, non avevano esperienza ma erano molto appassionati. Con loro, e con l’aiuto di professionisti di altri Paesi africani che hanno trasmesso le loro conoscenze, abbiamo filmato ma era un periodo turbolento, un anno dopo il colpo di stato militare le persone erano ancora per strada a protestare e a scontrarsi con le forze speciali. Tutto questo ha reso la produzione complessa. È accaduto più volte che dei lacrimogeni finissero sul set, dovendo interrompere tutto. Al momento sarebbe impossibile realizzare un nuovo progetto, spero che questa guerra non si trascini per anni. Le parti coinvolte dicono di voler riportare la democrazia nel Paese, ma secondo me è solo una spartizione di potere.

Come hai costruito la relazione tra le due donne in fase di scrittura?

Tutti i personaggi sono in una zona grigia, non sono perfetti, le loro scelte sono discutibili ma allo stesso tempo comprensibili. Quello che cercavo di fare è spingere le persone a una riconciliazione, e per farlo è indispensabile la comprensione dell’altro, anche se la si pensa in modo diverso.

Perché secondo te il cinema in Sudan è ancora un territorio inesplorato?

C’è più di una ragione, ma il regime precedente combatteva tutte le forme d’arte, hanno chiuso le sale e hanno fatto veramente un ottimo lavoro! In generale l’arte è considerata qualcosa di poco importante rispetto ad altri mestieri, i corsi all’università che la insegnano sono pochi.

Qual è il tuo rapporto col cinema africano?

Non ne sono molto influenzato mentre amo moltissimo quello iraniano. Credo che con l’Iran abbiamo molte cose in comune, la storia e le tradizioni sono simili. Il Sudan è al confine tra il mondo arabo e quello africano, per questo si trova in una posizione unica, penso che se la diversità venisse usata nel modo giusto potrebbe essere una grande ricchezza.

Come hai trovato le due attrici protagoniste?

Sui social! Ho visto il video di una cantante, Eiman Yousif, le ho proposto di fare il film e dopo ho scoperto che aveva esperienze col teatro. Siran Riyak invece è una modella, l’ho contattata dopo un’intervista a Miss Sud Sudan.

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