Secondo il filosofo cinese Zhuangzi, il macellaio affetta la carne senza incertezze perché avendo introiettato la finezza della lama e la posizione delle giunture dell’animale evita le ossa, e sa come «muoversi tra i vuoti». Altrettanto accurato, il fabbro del primo racconto della raccolta di Mo Yan Maturare tardi (traduzione di Patrizia Liberati e Maria Rita Masci, Einaudi, pp. 364 € 22,00) esibisce la sua maestria nell’uso di un falcetto, trasmettendo attraverso il braccio la sua sagacia artigianale. Lo scrittore cinese ambienta le sue storie negli spazi fra il presente della Cina contemporanea e il passato del suo paese d’infanzia, saturando quella parabola di ironici auto-riferimenti intertestuali. Il suo consueto virtuosismo si nutre dei frammenti di una esuberante memoria, mentre ritaglia dodici storie da un unico universo narrativo, che ripercorre le proprie origini contadine e da lì tutta la propria strada personale, quasi invocando da una giuria fatta di personaggi (in carne e ossa sono parenti e compaesani) un giudizio sulla sua  vita e sul suo lavoro.

Nel suo caso personale si riflettono le origini e la traiettoria di un intero paese, e dunque Mo Yan non solo si interroga su successo, fama, potere e denaro, ottenuti grazie al talento personale e all’etica della fatica, ma include disonestà e compromessi, ovvero le ambigue contiguità con il Partito, denunciando abusi edilizi e inquinamento ambientale, vanagloria, truffe e corruzione. A confessare peccati grandi e piccoli sono affabulatori in miniatura che rifanno il verso al loro maestro.

Viene a galla, tra le righe, il terribile peso derivato dalla classe di appartenenza, in Cina: enormi e paradossali sono stati infatti, nella storia moderna del paese, i drammi causati dall’identità sociale o dall’abuso del potere performativo intrinseco al linguaggio politico. Latifondisti e rivoluzionari, finti poeti e veri affaristi popolano le pagine di questi racconti: fra loro, Liu Weidong detto Mosé, figlio del primo convertito al cristianesimo nello Shandong; e il poeta Niksup, che si fa chiamare come Puskin letto al contrario, essendo – nella realtà – nient’altro se non un patetico imbroglione che approfitta delle sue relazioni per incassare benefit e onorificenze.

A Mo Yan piace introdursi nelle sue opere: lo aveva già fatto magistralmente nel Paese dell’alcol, dove uno scrittore bruttino, con i capelli radi e amante della grappa, si avventurava nelle sue stesse lande diegetiche mescolandosi agli sgangherati personaggi che agiscono sulle pagine. Qui, in questa raccolta prevalentemente autobiografica, Mo Yan  si mette in scena direttamente come membro (illustre) della comunità di Gaomi, vero luogo natale e fittizio locus narrativo, epitome della Cina contemporanea e di un mondo rurale che, elevato agli altari e ivi sacrificato da Mao, in mezzo secolo di riforme si è ibridato attraverso discutibili pratiche urbane.

Dal traffico di pettegolezzi via internet allo sfruttamento turistico del paesaggio, fino alle  speculazioni sulla fama dello scrittore, derivatagli dal Nobel vinto nel 2012, tutti i mezzi vengono usati da chi pur avendo un passato rozzo e incivile diviene, in questa macchina di riciclaggio sociale, rispettato e potente. Violenza politica e vendetta, ambizione e sete di riscatto affiorano in molte di queste storie il cui tono apparentemente leggero e canzonatorio restituisce il ritratto di una Cina invecchiata nella sua ansia di trasformazione: un paese «maturato tardi», nonostante la rapidità inconsulta del cambiamento.

Più che abilità e saggezza, sono fortuna e trasformismo ad assistere questi personaggi spacconi e miserabili. La performance tutta mentale dell’artigiano cantato da Zhuangzi si fa, in questa versione postmoderna della società, pura esibizione: «Non siamo diventati anche noi personaggi di spettacolo? […] Andiamo sul palco e ci mettiamo in posa», fa dire a uno dei protagonisti lo scrittore che, come un abile capoteatro, dirige la stralunata compagnia del villaggio, in una recita lunga una vita. Filtrati dalla memoria e dalla nostalgia, gli attori messi in scena ci trascinano in un microcosmo glocal (tra)sfigurato dai tumulti della Storia: la campagna profonda che si fa città, in cui le abitudini e la mentalità rurale convivono con uno spregiudicato uso della tecnologia. Il kang, un letto di mattoni riscaldati, e i vecchi bagni pubblici affiancano stanze a cinque stelle, scaldabagni a energia solare, contadini con smartphone e telecamere di sorveglianza nei vicoli del villaggio. I personaggi di Mo Yan hanno familiarità con entrambe le dimensioni e le attraversano con disinvoltura, mossi dall’interesse sia economico sia politico: le vecchie denunce pubbliche a suon di dazibao – spesso faide personali piuttosto che esempi di vera lotta di classe – sono oggi sostituite da video ripresi da cellulari e diffusi in rete. Il pragmatismo degli avi risorge rafforzato nel cinico affarismo locale. Perle di acuta saggezza si srotolano nelle parole dei più incredibili e disgraziati mistificatori, ma la meditazione dello scrittore sul destino di una società così contraddittoria mette tutti sullo stesso piano: il balordo venditore di poesia da quattro soldi e il Premio Nobel per la letteratura: «Godi di una fama immeritata, ti sei fatto un nome imbrogliando il mondo. In un’epoca senza eroi, la celebrità va agli stolti, non è una tragedia? Niente affatto, la vera tragedia è che, anche se il mondo è pieno di eroi, gli stolti fanno fortuna lo stesso»!

Né la Rivoluzione né il capitalismo sembrano essere riusciti a avere ragione del radicato familismo che vincola coscienze e comportamenti più della lotta politica o della bramosia di guadagni. In tutti i casi, ciò che determina la natura delle relazioni sociali e ne definisce il valore è la sopravvivenza, in cinese shengcun, parola che unisce i caratteri sheng (vivere) e cun (accumulare) secondo un’ontologia prettamente cinese: per sopravvivere serve preservare la vita naturale (sheng) ma anche i propri beni, primi fra tutti la prole. Cun, infatti, nella forma stilizzata del carattere «talento» comprende anche il significato di «figlio», bene per la cui perdita la zia del narratore-protagonista Mo Yan non esita a ingaggiare uno scontro con un branco di lupi,  nell’ultimo episodio, tra l’epico e il fantastico, della sua saga-microstorica della Cina popolare.

Dunque, dalla lotta per strappare la vita alla povertà, com’era prassi negli anni del maoismo, si è passati all’attuale ossessione del profitto che colpisce chiunque, contadini e intellettuali inclusi. Tutti s’industriano nel contribuire al sogno cinese e al discreto benessere invocati dai leader, ma sono molti coloro che restano indietro.

Da ex contadino, ex operaio ed ex membro dell’esercito, Mo Yan spiega la parabola che ha riscritto i legami famigliari, sociopolitici, economici, traducendo una violenta utopia politica in una altrettanto violenta distopia di possesso. Satirico, malinconico, a sprazzi lirico cantore dei suoi concittadini, Mo Yan non risparmia nessuno, tantomeno sé stesso, rifugiandosi nel nichilismo buddhista dei versi di Niksup: «Consapevole che le cose del mondo non sono che illusioni,/ reciti come vera questa commedia di finzioni./ Passati i sessanta pur vicino alla morte/ continui a macerarti per la reputazione./ Mille legami non riesci ad abbandonare,/ rimani in sostanza un uomo banale».