Minari è il nome con cui la nonna arrivata dalla Corea in uno sperduto suburbio rurale dell’America chiama l’erba che accompagnata dallo scettico – e anche un po’ ostile – nipotino pianta vicino a un fiumiciattolo non proprio limpido. «Minari, Minari is wonderful» canta mescolando qualche parola della lingua a lei sconosciuta che si parla nel Paese scelto dalla figlia per vivere e crescere i suoi figli. «Minari è meravigliosa» perché è la pianta che si adatta ovunque, che tutti, ricchi e poveri, possono raccogliere, che fa bene a ogni malanno, cura, protegge, fortifica; che si usa nella zuppa e nelle tisane. Sarà mica la stessa con cui prepara uno strano decotto che obbliga di bere al ragazzino – assai disgustato e sempre più arrabbiato perché quella nonna che gli ha invaso la stanzetta già angusta, non è nemmeno «una vera nonna», non fa biscotti né racconta storie ma gioca a carte e guarda la lotta alla tv?
Chissà. O forse quell’erba resistente racconta tutti quelli che come loro hanno cercato di «mettere radici» altrove scontrandosi con regole e difficoltà per trovare un proprio spazio, sbilanciati sul confine tra un «qui» e un «lì», che sia la lingua, le abitudini, il cibo, i credo, i luoghi comuni – «Perché hai la faccia piatta?» domanda un ragazzino al piccolo David che poi diventerà il suo amichetto del cuore, lui a sua volta «stereotipo» di cow-boy, camicia country tabacco in bocca occhialoni. E Minari – nelle sale riaperte da ieri per Academy – è il titolo che Lee Isaac Chung ha scelto per il suo film, Oscar alla migliore attrice non protagonista, la meravigliosa Yu Jung-Youn (l’ineffabile nonna coreana), spesso nei film di Hong Sang-soo, quasi a ricordare in questa storia anche l’aspetto personale, il vissuto che l’ha ispirata – lui come i ragazzini del suo film nato in America, a Denver, nel 1978 da famiglia di immigrati coreani – restituendo al tempo stesso un’immagine universale di chi emigra all’interno delle singolarità di ciascuna esperienza, delle storie che questa contiene.
Jacob Yi (Steve Yeung, visto in Burning di Lee Chang dong e sua moglie Monica (Han Ye-ri) dalla California dove abitavano si trasferiscono coi loro figli David (Alan Kim) e Anne (Noel Kate Cho) in Arkansas, la coppia aveva deciso insieme di lasciare la Corea dove «la vita era troppo dura» e di affrontare la scommessa dell’America. E poi?

LA SCELTA dell’Arkansas è invece solo di lui, lei certo non si aspettava quello che trova all’arrivo, una casa su ruote precaria e nel mezzo del nulla, il centro più vicino coi negozi e l’ospedale (David ha problemi cardiaci) a ore di automobile, intorno campi dall’aria un po’ selvaggia, niente acqua, un paesaggio popolato da strani tizi bigotti, reduci dala guerra di Corea, razzisti ma in fondo simpatici, superstizioni, solitudine soprattutto. È arrabbiata, triste, si sente tradita da quel marito preso a inseguire la sua ossessione: una fattoria dove coltivare esotici legumi coreani pensando all’alto numero di connazionali che ogni anno arrivano negli States. Ma i soldi sono pochi, o almeno non abbastanza per affrontare le continue spese, a cominciare dall’acqua con cui innaffiare la terra, e poi quel posto per tutti è maledetto, chi c’era prima ha fallito suicidandosi.

JACOB lavora tutto il giorno, nei campi e insieme alla moglie in una fabbrica di pollame dove separano per sesso i pulcini, le femmine da una parte e i maschi inutili nell’inceneritore: lo spiega al bambino, si sente pure lui così? Le liti nella coppia si fanno più aspre, fino alla decisione di far arrivare dalla Corea la mamma di lei. Ma questa eccentrica nonna coreana porta il clash culturale all’esasperazione: dormire per terra o sul letto, i sapori di casa e la coca cola, cosa rimane e cosa si è perduto, l’ansia di «diventare americani» e quella più segreta di tenersi un pezzo di memoria da qualche parte del cuore.
In fondo l’ostinazione di Jacob a riuscire nella sua impresa – al punto da capire il malessere disperato di chi gli sta accanto – somiglia a quella dei pionieri, seppure in un’America anni Ottanta – che sembra più quella dei Sessanta e rimane sempre un po’ sullo sfondo. Il regista preferisce concentrarsi sull’universo dei suoi personaggi, il punto di vista è quello di David, è lui (alter ego di Isaac Chung) il «narratore» di una storia famigliare che attraversa il «mito della frontiera» – «questa terra è la mia terra» – e il romanzo di formazione dei piccoli e dei più grandi in un passaggio esistenziale verso una diversa e nuova consapevolezza di sé.
Minari – prodotto da Brad Pitt, e premio del pubblico al Sundance 2020 – scrive così la cronaca di un divenire americano che nella figura del padre soffre forse di eccessi di illusioni felici, e che coincide anche con una obbligata assunzione (e resa) di codici estranei; un processo che il regista sposta sul piano dell’immaginario facendo suo quello americano e insieme tenendolo a distanza. Un po’ come l’erba del titolo, radicata al di qua e al di là del Pacifico.