Mila Turajlic, l’operatore di Tito in Algeria
Intervista La regista serba è tornato alla 34° edizione del Trieste Film Festival con «Non-Aligned» e «Ciné-Guerrillas», due film che s'incrociano per poi prendere strade diverse
Intervista La regista serba è tornato alla 34° edizione del Trieste Film Festival con «Non-Aligned» e «Ciné-Guerrillas», due film che s'incrociano per poi prendere strade diverse
Attraverso gli archivi le popolazioni hanno creato la propria memoria collettiva e identità scoprendo a volte storie dimenticate o mai raccontate. Gli archivi infatti custodiscono ricordi di un tempo e mondi ormai passati a cui guardare per riflettere sul presente e costruire con consapevolezza il futuro. La regista Mila Turajlic si muove da tempo all’interno degli archivi e della memoria della Jugoslavia, prima attraverso la storia del cinema jugoslavo con Cinema Komunisto, vincitore nel 2018 del concorso documentari al Trieste film Festival, successivamente nel suo secondo lavoro The Other Side of Everything s’interroga, tra ricordi personali e immagini di archivio, sulla storia del suo paese e sulle responsabilità che ogni generazione ha nella lotta per il proprio futuro. A distanza di anni la regista serba è tornato alla 34° edizione del Trieste Film Festival con Non-Aligned e Ciné-Guerrillas, due film che s’incrociano per poi prendere strade diverse: il punto d’incontro è l’archivio The Labudovic Reels del cameraman di Tito, Stevan Labudovic che ha seguito la nascita dei Non Allineati, ma soprattutto i movimenti di liberazione dell’Algeria durante il colonialismo. Mila Turajlic seguendo la straordinaria storia di Labudovic, compone un dittico che esplora due momenti importanti per la storia geopolitica internazionale.
Come nasce l’idea di questo dittico e come hai conosciuto Labudovic?
Era da tempo che volevo realizzare un film sulla storia dei Non Allineati, è una parte dei miei ricordi d’infanzia. Nel 2011 ho avuto l’autorizzazione per seguire la commemorazione del 50° anniversario dei Non Allineati, però quello che mi interessava di questa storia l’ho trovato in Algeria quando nel 2013 presentai Cinema Komunisto al Festival International du cinéma engagé. Durante il Festival ho vissuto un’emozione forte, di complicità con i cineasti e il pubblico algerino che hanno avuto una reazione profonda verso il film. L’ho trovato strano, non riuscivo a capire perché il popolo algerino fosse così toccato dalla storia della Jugoslavia; allora ignoravo la collaborazione tra il governo algerino e jugoslavo nella guerra in Algeria. Durante le cene con i registi ero colpita dal fatto che avevamo lo stesso sguardo sul mondo e la stessa analisi sulla situazione geopolitica internazionale; c’era veramente un’unione tra di noi e ho pensato che questo è il senso dei Non Allineati che mi interessa raccontare. L’anno successivo tornai in Algeria perché Cinema Komunisto aveva vinto il Gran premio del Festival e lì conobbi Stevan Labudovic, ospite d’onore di quell’edizione. Quando incontrai Stephen capii subito che era lui il soggetto da seguire per realizzare il film perché aveva marcato la storia del cinema rivoluzionario algerino ed è stato l’occhio che ha seguito i momenti più importanti dei Non Allineati.
I tuoi lavori sono densi di avvenimenti, informazioni e ricordi; come hai lavorato sulla struttura dei film e quanto tempo hai impiegato per realizzarli?
All’inizio ho avuto un momento di esitazione perché avevo già trattato la storia del cinema jugoslavo, non volevo ritornare sulla stessa tematica e per il discorso sul linguaggio cinematografico mi sono imposta una sfida che mi portasse a non rifare un film con lo stesso stile. Avevo l’esigenza di andare al di là del mio primo film e il soggetto mi ha veramente portato altrove perché sono due storie differenti che volevo raccontare in maniera diversa: Non Allineati attraverso un ricordo d’infanzia e personale, Ciné-Guerillas con i diari di Stevan e la visione dei suoi compagni. Ho incominciato a girare con Stevan subito dopo il nostro incontro in Algeria nel 2014; ho avuto la fortuna di lavorare con lui per tre anni, poi è morto a fine novembre 2017 due giorni dopo che The other side of everything ha vinto il premio IDFA. Questo per dirti come i due film si sono susseguiti e accavallati, non c’è una cronologia nel mio lavoro tutto è fatto nello stesso momento. Dopo la sua morte ho filmato ancora all’incirca due anni ed è in quel periodo che ho veramente guardato negli archivi. Il montaggio è durato circa due anni perché abbiamo passato quasi un anno a cercare di mettere tutto all’interno di un unico film senza successo; quando ho capito che bisognava separare i due film ho preso tempo per finire entrambi.
È un processo molto lungo, qual è stata la parte più complessa del tuo lavoro?
Ricostruire la storia di Stevan. Quando ci siamo visti non mi ha raccontato la sua storia in modo lineare; ci ho messo cinque anni per capire l’importanza e il peso di questa storia, ricostruire l’intenzione politica dietro questi video, il perché hanno filmato il viaggio di Tito e perché Tito ha inviato Stevan a riprendere il movimento di liberazione in Algeria. Così ho fatto delle ricerche, ma ho impiegato mesi per ottenere l’autorizzazione per entrare negli gli archivi del Ministero degli Affari Esteri della Jugoslavia Socialista e ho passato all’incirca due anni negli archivi del Ministero dell’Informazione del Governo Federale della Jugoslavia, dove ho fotografato e scannerizzato circa 2000 documenti. Mi è esplosa la testa perché ho capito che sistemare questi archivi, comprenderli, riattivarli e condividerli poteva essere il lavoro di una vita. Per molto tempo ho pensato che non sarei stata l’altezza come cineasta di questo lavoro, ma nessuno si è proposto di farlo, non c’era nessuno storico che si è interessato a tutto questo. Così nel 2020 ho lanciato sul web un progetto artistico di ricerca che ho chiamato Non Allineati, un progetto che continua ancora oggi e va oltre la storia di Stevan e il film.
Guardando i tuoi lavori non si può non riflettere su come il cinema e le immagini siano importanti per la costruzione della memoria e dell’identità di un paese come nel caso dell’Algeria; ma soprattutto sono determinanti in un processo di revisionismo storico.
È una questione molto profonda quella che mi chiedi. Per esempio io sono cresciuta e vivo in una società dove la memoria collettiva è piena di lacune e buchi neri perché abbiamo avuto una storia molto violenta contrassegnata dal cambiamento dei regimi che ha prodotto una rimozione del passato e anche quando c’è stata la rivoluzione democratica in Serbia nel 2000 abbiamo avuto l’eliminazione delle epoche precedenti. Penso che questa sia una delle cause principali che impedisce alla società serba di oggi di guarire e avanzare, non siamo capaci di raccontare la nostra storia e di trasmetterla alle generazioni successive. Penso che i nostri storici hanno fallito, perché la scrittura della nostra storia è presa in ostaggio dalla politica. Per me chi fa un lavoro essenziale sono gli artisti, lavorano la materia della memoria in maniera libera e creativa, diversamente dagli storici che per abitudine sono un po’ spigolosi davanti alle immagini. Guardando i miei lavori degli ultimi dieci anni, posso dire che è nata in me una filosofia dell’immagine che sviluppata l’idea che possiamo utilizzare gli archivi dei filmati per lavorare sui buchi della memoria non per riempirli, non penso che sia necessario o possibile scrivere la storia in maniera netta, ma per interrogarsi su chi ha fatto quelle immagini e perché le ha fatte. Ho lavorato su archivi dello Stato e sono delle immagini ad appannaggio di un pensiero politico, quindi mi interessa interrogare le intenzioni per cui sono state utilizzate; non cerco mai nelle immagini la prova delle cose ma le tratto come degli oggetti a sé, come vettori di un pensiero. Il lavoro che ho fatto con gli archivi, fin dal mio primo film, è lavorare sulle lacune della nostra memoria collettiva e di trattarle con uno sguardo estremamente soggettivo, i miei sono film intimi sulla memoria.
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