Cultura

Mikhail Shishkin, liberare l’anima russa avvolta nel filo spinato

Mikhail Shishkin, liberare l’anima russa avvolta nel filo spinatoUn murales di Putin nella città russa di Kashira, nella regione di Mosca – foto Ap

L’intervista Parla l’autore di «Punto di fuga» e «Russki Mir», entrambi per 21 lettere. Vincitore dello Strega europeo, tra i più noti scrittori del suo Paese, partecipa domani a Più libri più liberi. «La menzogna permea ogni cosa: a Mosca in tv passano le foto di Butcha ma si dice che i crimini sono stati commessi dagli ucraini. E ogni madre vorrebbe un figlio eroe e non assassino». «Per contrastare l’odio e il dolore abbiamo un solo rimedio: la cultura. Quando questa guerra finirà ne avremo bisogno per creare nuovi legami tra il popolo ucraino e quello russo»

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 9 dicembre 2022

È considerato uno dei maggiori scrittori russi contemporanei, la cui opera ha raccolto importanti riconoscimenti internazionali, tra cui, lo scorso anno, il Premio Strega europeo con il romanzo epistolare Punto di fuga (21lettere). Eppure Mikhail Shishkin ha scelto di lasciare il suo Paese per vivere in Svizzera, a Zurigo, da dove non ha smesso un solo istante, già prima dello scorso 24 febbraio, quando le truppe di Mosca hanno invaso il territorio ucraino, di battersi con gli strumenti di cui dispone, quelli della letteratura e più in generale della cultura, in nome di «un’altra Russia» che non solo non si riconosce nel potere di Putin, ma auspica una sorta di «rivoluzione civile» per il Paese. Nel suo ultimo libro, la raccolta di brevi e intensi saggi dal titolo Russki Mir: guerra o pace? (21lettere, pp. 254, euro 19) che indaga il ventennio putiniano e le sue radici nel dispotismo dell’Urss e nella «cultura delle menzogna» che accompagna i regimi autoritari, evoca non a caso Thomas Mann e il modo in cui l’intellettuale tedesco dopo il 1945 considerasse centrale per il futuro della Germania e del suo popolo il riconoscere fino in fondo le proprie colpe e come, da patriota, non potesse che augurarsi la sconfitta bellica della sua patria per vederla rinascere con un volto nuovo nel segno della libertà. «L’odio è la malattia, la cultura è la medicina», scrive Shishkin nella prefazione al volume indicando la limitatezza ma al tempo stesso la forza risoluta di chi si oppone oggi alla guerra di Putin.

Mikhail Shishkin

Lo scrittore presenterà domani la sua ultima opera a «Più libri più liberi», la kermesse in corso alla Nuvola dell’Eur a Roma (ore 14,15 in Sala Vega con Mario Caramitti).

Suo nonno morì in Siberia perché si era opposto alla collettivizzazione forzata – non voleva consegnare la mucca che serviva per sfamare la famiglia -, di suo zio, catturato dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, le autorità di Mosca non hanno più fatto avere alcuna notizia ai famigliari, lei stesso è costretto all’esilio. Che «patria» è quella che divora i propri figli?
Succede: i bambini amano la madre anche se lei è un’ubriacona cattiva che non si cura di loro e li picchia. Forse non amano esattamente la persona, ma amano l’idea stessa di avere una madre? Odio il regime che c’è in Russia in questo momento, ma mi piace l’idea di avere una patria civile e democratica. Tale Russia non esiste, lo so, ma la amo lo stesso.

Nelle prime pagine di «Russki Mir» lei spiega che «Putin è un sintomo, non la malattia»: il sintomo di quale male che avvolge oggi la Russia?
Tutte le nazioni devono superare questa malattia ad un certo punto del loro sviluppo: la coscienza collettiva di una tribù. In una tribù non hai la responsabilità della decisione, cosa è bene e cosa è male, la ha solo il capo. La nostra tribù ha sempre ragione e le altre tribù sono nostre nemiche e hanno sempre torto. L’unica via d’uscita da questo modo di pensare preistorico è lo sviluppo della coscienza individuale dell’umanità moderna attraverso la cultura, la civiltà, l’umanizzazione. Personalmente ho la responsabilità delle mie decisioni, di ciò che è bene e di ciò che è male. E se vedo che la mia gente, il mio Paese ha torto, sarò contro il mio Paese e contro il mio popolo. Fino ad ora, la maggior parte dei russi è rimasta mentalmente nel passato. Si identificano con la loro «santa Russia» che è sempre buona e gli altri popoli hanno sempre torto. Sono pronti a difendere la loro patria dai nemici e a morire per essa. Sfortunatamente non si rendono conto che non stanno difendendo la patria ma un regime criminale. Tutti i dittatori erano grandi maestri nell’usare a proprio favore i sentimenti patriottici dei loro sudditi.

Lei cita Nikolaj Berdjaev, che dopo aver sostenuto la Rivoluzione di febbraio nel 1917 fu espulso dalla Russia nel 1922 sulla cosiddetta «nave dei filosofi», e che nel 1939 parlava in questi termini della centralità della menzogna nel sistema sovietico: «La gente vive nella paura e la menzogna è la sua arma di difesa». Parole valide per la Mosca di Stalin come per quella di Putin?
Sì e no. Il problema è che le persone non riescono a vedere la differenza tra la verità e una bugia. Alla tv russa vengono mostrate le orribili foto di Butcha con i cadaveri per strada, ma viene detto che questi crimini sono stati commessi dagli ucraini. La madre di un soldato russo può scegliere: suo figlio è un fascista che uccide bambini ucraini o suo figlio è un eroe che combatte i nazisti ucraini e difende la sua patria dal «Nato-fascismo». Quale può essere la sua verità? Ogni madre vuole che suo figlio sia un eroe che difende i bambini e non un assassino fascista.

Sulla possibile evoluzione della società russa lei scrive che «quando una persona nasce e cresce in un campo penale, il filo spinato rimane nella sua anima. Non basta ricevere la libertà dall’alto, bisogna anche togliere il filo spinato dall’anima». Da cosa può partire il cambiamento a Mosca?
Come la moderna Germania democratica ha preso avvio da una sconfitta totale, così una nuova Russia deve iniziare con una sconfitta piena nella guerra in corso. A volte, quando le persone svengono, schiaffeggiarle aiuta a farle riprendere conoscenza. Lo stesso è per il mio Paese: serve uno schiaffo profondo per riprendere conoscenza e vedere la realtà. La mia gente deve riconoscere che in questa guerra non sta combattendo il fascismo perché è fascista essa stessa. I russi hanno bisogno del riconoscimento nazionale della colpa. Devono chiedere perdono in ginocchio a tutte le nazioni in cui i carri armati russi hanno cercato di distruggere la libertà: a Kiev, a Praga, a Budapest, a Vilnius, a Tbilisi eccetera. Solo quello potrebbe segnare il debutto della futura Russia democratica. Può essere possibile? Ne dubito. In Germania gli Alleati realizzarono la denazificazione e i processi di Norimberga. Non vedo il potere che potrebbe realizzare in Russia una vera e profonda deputinizzazione. Chi giudicherà e condannerà i criminali di guerra? Gli stessi criminali di guerra? Tutti i poliziotti, giudici, funzionari statali, insegnanti, direttori di istituzioni culturali come biblioteche e musei, registi teatrali e cinematografici che hanno dovuto sostenere la guerra contro l’Ucraina negli incontri pubblici o hanno dovuto firmare lettere aperte a sostegno di Putin e della sua «operazione speciale»? Comunque la Federazione Russa crollerà e si disintegrerà. Ora è incinta di nuovi Stati come l’Urss prima della sua fine: diventeranno repubbliche democratiche rinunciando alle armi nucleari? Dubito di nuovo. La popolazione avrà paura dell’anarchia e del caos e alle prime elezioni libere si voterà per la «mano forte» che promette ordine. E i governi occidentali sosterranno i nuovi dittatori russi perché promettono di prendere il controllo delle armi nucleari. La storia russa si morderà di nuovo la coda.

Nel libro ricorda di essere nato quando fu costruito il Muro di Berlino e di essere cresciuto nell’attesa che crollasse. Come descriverebbe la «generazione Putin», i giovani cresciuti negli ultimi vent’anni: anche loro sognano la libertà?
Questo è il dramma della mia patria: una piccola parte dei miei compatrioti è pronta a vivere in una società democratica e ad assumersi la responsabilità di tutto ciò che accade nel loro Paese, ma la stragrande maggioranza si inchina ancora davanti al potere e accetta questo stile di vita. Il confine tra queste due Russie non dipende dall’età. Ha visto le immagini della recente mobilitazione per il fronte: migliaia e migliaia di giovani sono andati obbedienti in guerra per uccidere gli ucraini e per essere uccisi. Nessuna propaganda può influenzare le persone se non sono disposte ad essere influenzate. È storicamente la mentalità russa. Hanno in mente la stessa immagine del mondo medievale: la Russia è un’isola santa nell’oceano dei nemici, dobbiamo difendere la nostra madrepatria e solo il Padre del Cremlino può salvarci. Tra queste due componenti della società c’è un divario di civiltà. Molte persone lasciano la Russia perché il mio paese è emigrato dal XXI secolo al Medioevo. Le persone non vedono alcun futuro per sé e per i propri figli.

In «Punto di fuga» emerge il valore della letteratura come strumento di denuncia, in particolare nei confronti della guerra e dell’oppressione. Di fronte a ciò che accade dal 24 febbraio qual è il ruolo di uno scrittore russo e di ciò che scrive? E cosa significa dare voce all’«altra Russia» come fa lei in «Russki Mir»?
La letteratura si rivela sempre perdente quando inizia una guerra. La grande letteratura tedesca non ha potuto fermare Auschwitz, la grande letteratura russa non ha potuto fermare il Gulag. I miei libri e quelli scritti dai miei colleghi negli ultimi trent’anni dopo il crollo dell’Urss non hanno potuto fermare questa catastrofe. Abbiamo fallito. La propaganda di Putin ha avuto successo. E ora, in questi giorni e mesi orribili faccio quello che posso: scrivere, rilasciare interviste, parlare negli eventi di solidarietà. Ma dopo la guerra avremo di nuovo bisogno della letteratura. Per contrastare l’odio e il dolore abbiamo un solo rimedio: la cultura. Ne avremo bisogno anche per stabilire nuovi legami tra il popolo ucraino e quello russo. Cultura, letteratura, musica: la via per rimanere umani passa necessariamente da qui.

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