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Miguel Figueroa, memorie cubane dalla Roma papale

Miguel Figueroa, memorie cubane dalla Roma papalePio XII

Personaggi del secolo Gli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale nella colorata testimonianza di Miguel Figueroa y Miranda, incaricato presso la Santa Sede: Pio XII e l’esiliato Alfonso XIII «visti da vicino»

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 22 settembre 2024

L’argomento di cui parla Miguel Figueroa y Miranda, Dos años de reclusion en el Vaticano, un volume pubblicato qualche anno fa in Puerto Rico, è di particolare interesse per me e anche per chi sia curioso dei rapporti fra la Santa Sede all’epoca di Pio XII e un diplomatico arrivato a Roma nel 1937 come segretario della legazione di Cuba in Italia, per passare poi nel ’39 alla legazione presso la Santa Sede, sempre in Italia, come encargado de negocios. Si tratta di un libro di memorie scritto con brio, talvolta con un senso dell’umore non sempre comune in quegli anni ancora soggetti a non pochi formalismi e affettazioni.
Nato nel 1907 a Matanzas, Figueroa aveva più o meno l’età di mio padre e anche se il loro mestiere era diverso, la loro scrittura si somigliava per l’equilibrio della frase, la serietà e il tono dello stile. Cuba all’inizio del secolo ventesimo era assai diversa da quella dove una trentina di anni più tardi sarei nato io, e dove fui educato, perlopiù, da esiliati spagnoli cacciati dalla madrepatria con non poca durezza: cosa che forse rese la mia generazione diversa dai connazionali, essendo stata addottrinata da vittime della dittatura di Franco.

Figueroa scriveva e forse parlava come un europeo. Arriva in Europa per non tornare a Cuba che molti anni dopo, e morire più tardi ancora, nel 1993, dopo essere stato esiliato con l’inizio del governo di Castro in una delle Antille vicine alla nostra isola, Puerto Rico, dove insegnò all’università durante gli ultimi anni della sua vita.

Tutte queste bizzarre circostanze hanno prodotto un risultato insolito. Il presente libro parla della Roma prima e durante la Seconda guerra mondiale e soprattutto della Corte papale e della figura di Pio XII, il suo eroe: il diplomatico cubano infatti nutriva per il pontefice una venerazione totale. Papa Pacelli è stato spesso discusso ma sorprendentemente dopo la sua morte ebbe un trattamento diverso da Israele. Anche se non espresse forse mai con sufficiente chiarezza la sua difesa degli ebrei, ne salvò moltissimi senza neanche parlarne.

Non è facile giudicare gli uomini forti di un’epoca, e Pio XII infatti risulta oggi amato ma anche contestato, nonostante si abbia l’impressione che i lividi causati alla sua immagine via via si siano lentamente sbiaditi. Una cosa mi appare certa: egli non era uomo che si concedesse di dire sempre ciò che davvero pensava e soprattutto ciò che provava. Era a capo di una delle grandi religioni, ed era tenuto non solo a guidare ma anche a proteggere gli uomini che la professavano e che dipendevano da lui. Pio XII dovette decidere seguendo le sue intuizioni e quel che gli sembrava giusto fare, ma ciò non corrispondeva sempre ai suoi sentimenti o al suo senso del dovere. Nessun italiano della stessa epoca risultò più dubbioso, forse addirittura indeciso, ma anche uomini come Benedetto Croce o Giovanni Gentile, forse più univoci, più sicuri, non furono sempre senza errori. Non è opportuno qui fare paragoni con una figura che doveva incarnare la verità eterna e non certo trasmettere idee letterarie o politiche. È concesso mai a un uomo incarnare la verità assoluta? Non è forse un ideale o un compito irraggiungibile? Non dimentichiamo che un papa è sempre un uomo di parte e non per nulla ci si rivolge a lui chiamandolo «Santità» riferendosi all’immagine, e non solo a quella, di Dio in terra. Un uomo che rappresenta l’incarnazione di un’idea non può e non deve sbagliare; nello stesso tempo però egli resta un essere umano, ed essendo ancora molto arduo stabilire l’esattezza di ogni suo atto, è quasi impossibile giudicarlo.

Un altro personaggio di cui parla spesso Figueroa nelle sue memorie è il re di Spagna Alfonso XIII, che dovette lasciare la patria nel 1931 e recarsi in esilio prima in Francia e poi a Roma. Figueroa racconta a pagina 33 del volume come un giorno qualcuno arrivò alla porta del suo ufficio senza bussare o annunciarsi. Si presentò un signore alto dal volto pallido e distinto: Figueroa non l’aveva mai incontrato prima ma riconobbe immediatamente i lineamenti di Alfonso XIII, inconfondibili per chi aveva visto le sue fotografie infinite volte. Avanzò rapido verso il cubano, alto, deciso ed elegante, una personalità forte che egli conosceva senza conoscere.

Figueroa racconta che spesso andavano dopo cena a quel che gli spagnoli dell’epoca chiamavano «la tertulia del Grand Hotel», forse ancora oggi l’albergo più elegante di Roma. In uno degli angoli del gran salone si sedevano assieme vari diplomatici ispano-americani ed esiliati spagnoli: alcuni dei più noti vivevano addirittura nello stesso hotel e spesso arrivava il re col suo segretario, il marchese de Torres de Mendoza. Il re chiedeva sempre il permesso ad alcuni di questi suoi sudditi di sedere a conversare con loro, con una cortesia addirittura eccessiva. La sua franchezza gli impediva di nascondere – e io mi sono sorpreso a leggerlo –, la ripugnanza che gli ispirava allora il regime fascista: «Non credere a una parola di quel che ti raccontano», diceva a uno degli ospiti. «Quando si avvicinano … tutti girano, passano una volta dopo l’altra, quasi come fanno le truppe egizie nell’Aida di Verdi … si ripetono le facce e i coristi … puro bluff».

Il re diceva quel che pensava e in uno di quegli incontri un suo ospite si rivolse a don Alfonso: «Se io fossi stato Vostra Maestà non me ne sarei andato». Il re rispose senza battere ciglio: «Era più facile restare che andarsene». Nonostante la sua grande affabilità, egli aveva il dono di far sì che ognuno mantenesse la distanza che voleva mantenere.

Il 28 febbraio 1941, passati dieci anni dal suo esilio, Alfonso XIII morì a Roma qualche ora dopo la morte del suo fedele segretario, mormorando solo tre parole: «España, Dios mío». Fu subito messo per terra, senza bara, al centro della sua stanza con l’abito bianco dell’Ordine militare spagnolo, il Pendón de Castilla sulla testa e i piedi coperti dal manto della Vergine del Pilar inviato direttamente da Saragozza. Le mura e il pavimento erano sprovvisti di mobili, totalmente parati di stoffa nera in segno di lutto.

Il giorno dopo si celebrò un funerale solenne nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, lo stesso tempio nel quale il re assisteva alla messa ogni mattina alle 10. Il feretro fu portato in seguito nella chiesa nazionale spagnola, Santa Maria di Monserrato, e deposto accanto ai resti dei papi spagnoli Borgia, Callisto III e Alessandro VI. Molti anni dopo, nel 1980, sotto il regno di suo nipote Juan Carlos I, fu trasferito nel Pantheon dei Re al Monastero dell’Escorial.

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