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Il Papa e i cardinali «servi»

Il Papa e i cardinali «servi»Papa Francesco

Vaticano Sono passati undici anni e mezzo dall’elezione al soglio di Pietro ma ancora una volta Papa Francesco, scrivendo ai 21 futuri cardinali che riceveranno la berretta rossa il prossimo 8 dicembre, dimostra come l’impellenza che mosse il conclave ad eleggerlo nel 2013 sia sempre valida

Pubblicato circa 5 ore faEdizione del 17 ottobre 2024

Poche righe vergate di suo pugno. Nelle quali dice di pregare «affinché il titolo di “servo” offuschi sempre più quello di “eminenza”». E nelle quali incoraggia a far sì che il cardinalato incarni quelle tre attitudini con cui il poeta argentino Francisco Luis Bernárdez descriveva Giovanni della Croce: «Occhi alti, mani giunte, piedi nudi».

Sono passati undici anni e mezzo dall’elezione al soglio di Pietro ma ancora una volta Papa Francesco, scrivendo ai 21 futuri cardinali che riceveranno la berretta rossa il prossimo 8 dicembre, dimostra come l’impellenza che mosse il conclave ad eleggerlo nel 2013 dopo gli strami dei Vatileaks sia sempre valida: la necessità di una riforma profonda della Chiesa, che parta dall’abolizione dei privilegi con cui alcune gerarchie interpretano il proprio incarico e la propria posizione.
Se la forma è anche sostanza, nel 2024 non si possono più sopportare titoli – eminenze per i cardinali, ma anche eccellenze per i vescovi – che suonano come un retaggio di un tempo che non c’è più, una istituzione ecclesiale dedita al potere e all’assoggettamento del popolo più che ad altro.

Jorge Mario Bergoglio non ha partecipato al Concilio Vaticano II. Ma la necessità della riforma intesa come adesione sempre più profonda alla radice evangelica andando oltre il fissismo di determinate forme storiche è sempre stata presente in lui.

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Se fosse stato a Roma il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura dello stesso Concilio, con ogni probabilità avrebbe aderito a quel “Patto delle Catacombe” con cui alcuni vescovi latino americani (unico italiano Luigi Bettazzi) si impegnavano a vivere in povertà e a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Ne sono prova le tante scelte messe in campo fin dall’elezione a oggi. A cominciare dalle decisioni, che possono sembrare banali ma che tali non sono, di continuare a indossare le proprie scarpe nere al posto di quelle rosse, di utilizzare un’utilitaria per i propri spostamenti, di andare da solo dall’ottico a scegliere gli occhiali o dal dentista a curarsi i denti, fino alla rinuncia all’appartamento papale al terzo piano del palazzo apostolico.

Certo, vi rinunciò anzitutto per poter abitare in un luogo maggiormente accessibile, ma di fatto dicendo al mondo: nel limite del possibile voglio essere raggiungibile da tutti. Francesco non è mai stato contro la curia romana, come troppo frettolosamente alcuni osservatori hanno sottolineato. Ma contro quella parte di curia incapace di tornare ogni giorno alla povertà del Vangelo sì.

Come tanti prima di lui, da Ildegarda di Bingen a Francesco d’Assisi, da Meister Eckhart a Teilhard de Chardin, insiste su una riforma che parte dal riconoscimento delle malattie, fra queste, come disse rivolgendosi alla curia romana nel 2014, il «sentirsi immortale o indispensabile», in sostanza il concepire sé stessi come potere assoluto, come eminenze ed eccellenze a cui fare la reverenza.

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