Migranti, la rivolta nel Cara di Bari: «reclusi» tra i topi
Il corteo in città Un guineano ingerisce 11 pile: assistito solo il giorno dopo, è morto. In ogni container dieci persone, ce ne dovrebbero essere quattro
Il corteo in città Un guineano ingerisce 11 pile: assistito solo il giorno dopo, è morto. In ogni container dieci persone, ce ne dovrebbero essere quattro
Due ore e mezza in cammino dal quartier generale del comando scuole dell’aeronautica militare, nei pressi dell’aeroporto di Bari Palese, fino alla sede della prefettura in piazza Libertà, nel centro cittadino.
CENTINAIA DI MIGRANTI, «ospiti» del Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Bari, si sono riversati sulle strade del capoluogo pugliese all’indomani della morte di un ragazzo guineano di 33 anni, utente della stessa struttura. L’uomo, morto per arresto cardiaco dopo aver ingerito 11 batterie stilo, sarebbe stato trasportato all’ospedale San Paolo di Bari (dove è avvenuto il decesso) solo all’indomani del tentativo di suicidio. Una morte che, secondo gli altri ospiti del centro, poteva essere evitata se ci fosse stata più solerzia nel primo intervento. L’assistenza sanitaria e le cure ricevute, infatti, si sarebbero limitate alla somministrazione di una semplice compressa.
ALL’INTERNO della struttura, una volta comunicato il decesso, si sono diffuse rabbia e sgomento. Quindi c’è stato il mancato permesso d’uscita per recarsi al nosocomio. Quest’ultimo il punto di non ritorno. Nel corso della serata di lunedì i migranti hanno bloccato in segno di protesta le uscite del Cara con una catena, causando lievi danni alla nuova sala mensa. Ieri mattina hanno sfilato in corteo per rivendicare i loro diritti. Dopo le rimostranze, una delegazione è stata ricevuta dal prefetto di Bari Francesco Russo: «Dobbiamo proseguire con il dialogo per il miglioramento delle condizioni di vita» ha detto Afana Docteur, portavoce dell’utenza del Cara.
«IL MODO in cui siamo costretti a vivere è sgradevole, dentro un container ci sono dieci persone, quando ce ne dovrebbero essere quattro. Molte di loro devono stare in campagna, nel circondario tra Bitonto, Palo, Bitritto dalle 5 e 30 del mattino. Dal Cara si può uscire solo dalle 7. Cosa dovrebbero fare? Devono scavalcare muri di sei metri con filo spinato? C’è gente che si è fratturata le braccia per farlo». E ancora: «Se si torna dal lavoro dopo le 21 non puoi più entrare e dormi fuori. La prigione si chiude alle 20.30. Pensate sia un piacere scavalcare? Uscire così d’inverno, sotto la pioggia? Il prefetto e la politica sanno tutto questo, li tengono in prigione, in una zona militare protetta. Non possono entrare e uscire liberamente, come banditi e mafiosi. Questa è la prima cosa che bisogna cambiare, è un bunker».
UFFICIALMENTE, si tratta di una struttura di prima accoglienza tesa a ospitare i richiedenti asilo nella fase immediatamente successiva al loro ingresso sul territorio italiano, fino alla registrazione della domanda di asilo, entro trenta giorni. La permanenza nel centro, quindi, dovrebbe essere di natura transitoria. Ma la realtà è diversa. Ubicato all’interno di una base militare, circondato da un’alta recinzione in filo spinato controllata h24, e totalmente sconnesso (e distante) dal tessuto cittadino, il Cara di Bari, inaugurato nel 2008 con una capienza ufficiale di 744 posti e una tollerabile di oltre mille (attualmente presenti nella struttura), è l’ennesimo ghetto «informale» che fa da sfondo alle campagne pugliesi. Al suo interno vivono donne, bambini, intere famiglie.
LE CONDIZIONI igienico sanitarie sono pietose: solo negli ultimi mesi, in rapida successione, i ratti avevano morso e infettato un utente ed erano state rinvenute delle blatte nei piatti sigillati del servizio mensa. È in questo contesto che dodici richiedenti asilo, cinque egiziani e sette bengalesi inizialmente reclusi a Gjader, sono stati trasferiti dall’Albania.
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