Albania, una colonia contro il diritto
Vedere con i propri occhi il frutto della spregiudicata operazione di propaganda che il Governo Meloni sta mettendo in atto in Albania, con la connivenza di Edi Rama, non curandosi del diritto dell’Unione europea e senza rispetto per le storie e le sofferenze delle persone destinate ad essere deportate in quei centri, aiuta a comprendere la drammaticità della situazione in cui versa il nostro Paese. Aiuta a non essere miopi davanti alla spregiudicatezza di cui la Presidente del Consiglio è capace, innanzi ad una tra le più grandi (e costose) iniziative mediatiche ed elettoralistiche della storia repubblicana.
Mi ero recato per la prima volta a visitare il centro di Shengjin a giugno, mentre si svolgeva la conferenza stampa Meloni-Rama. Una conferenza farsa, in cui la Presidente italiana glorificava sé stessa e il Primo Ministro albanese attaccava i giornalisti italiani. Uno spettacolo insopportabile. In quell’occasione sono stato quasi aggredito dalla non meglio definita “security” di Rama, rincorso e strattonato. Alla faccia delle prerogative parlamentari.
Ho deciso di tornarci ad ottobre, con una delegazione di parlamentari di opposizione, e questa volta sono stato anche a vedere come funziona, o meglio, come non funziona, la prigione di Gjader. Una sorta di colonia detentiva, dove erano stati deportati i primi sedici migranti, richiedenti asilo soccorsi in mare, provenienti da Egitto e Bangladesh. I famosi paesi sicuri.
Quelle persone le abbiamo incontrate, erano tutte transitate per la Libia, avevano subìto torture, erano state vendute, fino a che non erano riuscite a scappare da quell’inferno. Si tratta di storie che non possono restare inascoltate e che devono essere prese in considerazione nel valutare la vulnerabilità di chi le ha vissute. Persone che, peraltro, non hanno commesso alcun reato, eppure sono detenute. Altro che garantismo.
Inutile ricordare che chiunque si occupi con un po’ di onestà intellettuale di diritto dei migranti aveva previsto da tempo che questo scellerato progetto “neocoloniale” sarebbe andato incontro a grossi inciampi giuridici. Questo perché per fortuna esistono, nel nostro ordinamento, garanzie che scattano quando si tratta di privare una persona della libertà personale. E questi centri di concentramento non possono funzionare a meno che il Governo non riesca a forzare le procedure e le garanzie previste dalla normativa italiana e dell’Unione europea.
L’impressione, avanzata anche dall’Unione delle Camere Penali, è che in verità il Governo non abbia fatto altro che cercare la polemica, fino allo scontro, contro la magistratura, perché Meloni è maestra di piagnisteo, e il vittimismo è il carburante che muove la sua operazione propagandistica.
Ecco quindi l’ennesimo pretesto di cui il governo si serve per distrarre gli elettori. Un nuovo nemico contro cui scagliarsi. Un giorno sono i «burocrati di Bruxelles», quello dopo i migranti, ecco ora i giudici comunisti. A volte ritornano. Tutti «anti-italiani», come Mussolini definiva chi lo contestava, tutti nemici della Patria, del popolo.
Eppure, perfino Meloni sa perfettamente, al di là del populismo, che i magistrati non avrebbero potuto fare altro che decidere nel modo in cui hanno fatto, dovendo fare riferimento a un complesso di norme e ad una giurisprudenza già note.
La polemica contro la magistratura non è quindi che l’exit strategy da un progetto fallimentare, che però consente a Meloni di recuperarne tutta la valenza propagandistica. Ora potrà raccontare che il suo Governo non ha potuto tenere gli stranieri lontani dal territorio italiano perché la magistratura politicizzata glielo ha impedito. Invece è la democrazia che lo impedisce. E la democrazia si fonda anche sull’osservanza e sul rispetto di un sistema fatto di garanzie, a tutela dei diritti fondamentali e della libertà delle persone, anzitutto di quelle più deboli.
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