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Migranti in Ruanda, la chiesa britannica boccia il piano di Boris Johnson

Migranti in Ruanda, la chiesa britannica boccia il piano di Boris JohnsonBoris Johnson – Ap

Critiche dagli arcivescovi di Canterbury e York Hotel Rwanda. Contro l’annuncio dalla ministra dell’interno Priti Patel la scorsa settimana di deportare i migranti che, dopo aver attraversato la manica su pericolosissime tinozze, attraccano sulle coste inglesi a […]

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 19 aprile 2022

Hotel Rwanda. Contro l’annuncio dalla ministra dell’interno Priti Patel la scorsa settimana di deportare i migranti che, dopo aver attraversato la manica su pericolosissime tinozze, attraccano sulle coste inglesi a Kigali – la capitale dello stato est africano si è levata la voce dell’arcivescovo di Canterbury Justin Welby.

Durante la predica pasquale, il prelato ha definito «empia» la decisione: il Regno Unito ha il dovere di «paese cristiano» di non «subappaltare le nostre responsabilità». Le «serie domande etiche» sull’invio (leggi deportazione) dei richiedenti asilo all’estero non possono «sopportare il giudizio di dio», ha aggiunto.

All’invettiva di Welby, la cui carriera di ex-banchiere è non del tutto innaturalmente ascesa al soglio arcivescovile, ha fatto eco l’arcivescovo di York Stephen Cottrell, che ha definito la mossa governativa «deprimente e angosciante». Ma lo sdegno ecclesiastico difficilmente turberà i sonni di Patel.

Quello che con una mirabolante scelta lessicale il ministero dell’Interno definisce «il primo partenariato mondiale per la migrazione e lo sviluppo economico» è stato firmato giovedì scorso dalla ministra britannica e dal ministro ruandese degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, Vincent Biruta.

Ed è una decisione estremamente costosa: al punto da indurre un deputato laburista, Chris Bryant, ad affermare polemicamente che con la tangente di 120 milioni di sterline (circa 145 milioni di euro) con cui il governo britannico corrompe lo stato africano si potrebbe sistemare ogni migrante in un altro hotel, il pentastellato Ritz.

Che questa critica sia tutto quello che il Labour targato Starmer sia in grado di esprimere la dice lunga sul suddetto e la sua leadership: “Sir” Keir sa che ormai Johnson – che sostanzialmente deve all’imperialismo revanscista di Putin lo straziante protrarsi del suo pernicioso domicilio in Downing Street – è stracotto a fuoco lento dal cosiddetto «partygate» (ricordate? le festicciole sue e del suo staff durante il lockdown) e che forse nemmeno i selfie con Zelensky su TikTok riusciranno a garantirgli l’impunità.

La delocalizzazione – in inglese offshoring – va assai di moda in questa fase disastrosa del tardo capitalismo. Finora si «delocalizzavano» i capitali illeciti nei paradisi fiscali; o i rifiuti, le scorie nucleari nelle ex colonie del Sud globale; o magari la forza lavoro in paesi dove il lavoro costa poco. Ma quando si tratta di esseri umani non si può certo parlare di deportazione: quelle cose le fanno i regimi illiberali e antidemocratici. Il doppio standard applicato poi ai profughi ucraini (la cui accoglienza è stata tanto strombazzata a parole quanto ostacolata nei fatti) ha costretto il governo a inventarsi improbabili baggianate per giustificare un comportamento che ha del criminale: l’idea sarebbe quella di aiutare la dinamica economia ruandese a svilupparsi.

La realtà è ovviamente ben diversa: questo è l’encomiabile parto della gestazione post-Brexit di un partito conservatore che ha sussunto l’Ukip dell’indimenticabile Farage e scimmiotta il Trump dei muri messicani. Dall’Hotel California da cui nessuno riesce ad andare via a un Hotel Rwanda in cui nessuno vuole andare.

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