Siamo fiori del mare selvaggio». Così, in prima persona, inizia una sorta di inno che chiude l’erbario di alghe dove attorno al 1851 Eliza French dispose campioni raccolti dall’acqua annotando luogo e data di riferimento. L’album, come molti altri esemplari che probabilmente l’algologa americana veniva realizzando, era destinato ai collezionisti così sensibili all’algomania diffusasi a cavallo dell’Ottocento. Se in epoca vittoriana le collezioni di felci imperversano, alghe e conchiglie ne sono degno contrappunto, tanto che una caricatura pubblicata sulla rivista satirica «Punch» nel 1856 enfatizza il piglio marziale di un gruppo di collezioniste chinate a raccoglierle al ritirarsi della marea.

Sul come e perché le alghe, sensuali maestre di seduzione e mistero, accendano l’immaginazione con il loro inesausto fluttuare si interroga l’artista visiva e scrittrice olandese Miek Zwamborn nel suo Alghe Un ritratto (Nottetempo, pp. 182, € 15,00).

A lungo fondamentali per la dieta degli umani, come attestato dalle alghe fossili, quelle marine esistono però già da molto prima, 1.7 miliardi di anni. Più di recente, oltre che per gli usi medicinali e gastronomici, sono state impiegate come materiali da costruzione o per estrarne sali e potassio, per la manutenzione delle dighe, come barometro, e via così, fino agli usi contemporanei nel design.

Con l’irlandese William Kilburn, l’attitudine alla classificazione e lo stile dell’illustrazione naturalistica finiscono per riflettersi perfino nel mondo della moda. Nel 1790 Kilburn, illustratore della Flora londinensis ma anche stampatore di tessuti, realizza per la regina Carlotta una stoffa ispirata a un intreccio di alghe viola, trasfondendovi senso di meraviglia ed echi del progresso scientifico.

Nella letteratura, oltreché in Oriente dove figurano come simbolo di prosperità, desiderio e amore, le alghe fin dal medioevo si affacciano nella figura del pericoloso mare coagulatum. Poi nei puntuali resoconti di von Humboldt sul Mar dei sargassi, come pure in quelli di tanti marinai dove serpenti marini di decine di metri si rivelano perlopiù mostruose matasse di alghe alla deriva.

Tra le raffigurazioni che impreziosiscono il volume, gli acquerelli realizzati nel primo cinquecento dall’olandese Adriaen Coenen, commerciante all’ingrosso di pesce e autore di albi consacrati alle creature del mare, la scena d’ambiente dedicata da James Clarke Hook alla falciatura e raccolta delle alghe in mare, The Seaweed Raker, oggi alla Tate di Londra, o, ancora, le Pêcheuses de goémon ritratte in Bretagna nel 1889 da Gauguin.

Mentre su sfondo blu spiccano quelle riprese con la tecnica della cianotipia dalla fotografa e botanica Anna Aktins a partire dal 1843, in generale le alghe saranno protagoniste anche di molte pellicole, dal cortometraggio del 1929 di Ralph Steiner H2O, sulle superfici acquatiche, al film di Jean Epstein Finis terrae, al documentario, miglior pellicola straniera alla Biennale del cinema di Venezia del 1934, Man of Aran, diretto da Robert Flaherty.

«Bel ciglio, dita di morto, grembiule del diavolo». Morfologie e immaginazione si fondono nei nomi che le alghe assumono nelle diverse lingue. Ed è al dùlamàn, nome irlandese della Pelvetia canaliculata, che è poi la stessa parola con cui si indica la ballata tradizionale dedicata al fascino delle alghe, che nel 1976 la band musicale dei Clannad intitola un suo famoso album.

Una fantasmagoria, questa sulle alghe orchestrata da Miek Zwamborn, dove l’autrice interviene con palpitante, partecipata osservazione diretta. Nella foresta d’alghe che con lei traversiamo, è sempre un intero paesaggio a muoversi lentamente, tutto insieme. Esempio forse di un mondo ideale – quello dell’interconnessione sottomarina – dove le specie si tollerano e si offrono a vicenda un appiglio per sopravvivere nella corrente. Pura simbiosi».