Il ritratto più fedele di Michael Cunningham – dell’uomo che è, e dello scrittore che è diventato – non si trova nascosto nelle righe del suo ultimo romanzo, bensì nell’appendice dedicata ai «Ringraziamenti»: quelle sì, sono righe palpitanti di vita, di riconoscenza, di passioni, tanto quanto l’esigenza di portare a termine un dialogo sulla pagina può tradire l’esperienza di un vacuum mortale. Dalla maestra elementare, che trasmise al futuro scrittore la convinzione per cui «imparare l’alfabeto ci sarebbe tornato utile», all’agente letteraria «dei miei sogni più sfrenati», che ha vagliato una dopo l’altra le innumerate stesure del romanzo, alla «correttrice dalla vista laser», che inchioda l’autore alla differenza abissale tra un punto e virgola e un trattino, agli amici che hanno contribuito a quella «atmosfera nella quale scrivere un romanzo appariva, almeno in teoria, un atto umano plausibile», fino agli studenti di Yale, «cruciale anello di congiunzione tra la vita vissuta e il tentativo di renderle giustizia usando solo linguaggio, inchiostro, e carta».

Descrizioni e personaggi
È una prosa, quella dei ringraziamenti, dove Cunningham sembra abbandonarsi, disfatto e felice dell’approdo, non prima di essersi scrollato di dosso l’armatura delle inderogabili norme e cautele da osservare nel processo della scrittura, avendo scansato i pericoli nascosti negli eccessi descrittivi, nelle ipotassi, negli aggettivi fuori controllo, nelle rime cacofoniche, nei cedimenti alle approssimazioni, nelle lungaggini, nelle sincopi, nelle scadenze che sembravano lontane e ora non lo sono più. Ma a tutto questo Cunningham aggiunge qualcosa che da sempre gli appartiene, e che da circa un decennio non trovava sfoghi letterari: quel metaforico impasto di carne e sangue di cui nutrì uno dei suoi romanzi più riusciti, dove compariva il personaggio di una straordinaria drag queen realmente vissuta, il cui vero nome era Dorian Corey. Imperiosa e amorevole, Dorian era la madre putativa di ragazzi in difesa dei quali Cunningham aveva militato ai tempi dell’Aids: avevano preso in affitto la cantina di una chiesa, e uscivano avvolti in metri e metri di stoffa per travestirsi e andare a organizzare sontuosi balli a New York. Niente di tutto questo sopravvive tra le pagine di Day (traduzione di Carlo Prosperi, La Nave di Teseo, pp. 317, euro 22,00), abitate da un convincente quanto convenzionale campionario dell’umanità, nella Brooklyn degli anni 2000.

L’incipit è depositario di alcune tra le righe più belle, che descrivono Isabel, una dei protagonisti, alla finestra in contemplazione di un gufo, pronto a staccarsi dal ramo di fronte: «Disegna un arco verso l’alto, svanisce. C’è, nel suo addio, un senso di abdicazione, quasi che la sua presenza sull’albero fuori dalla finestra fosse stata un errore, un’involontaria apertura nel tessuto del possibile, rapidamente ed efficacemente corretta».

In ordine di apparizione: Isabel è stata la battagliera redattrice che per una rivista sinistrorsa scopre giovani fotografi sconosciuti e commissiona loro immagini contrarie a quelle ricercate dal senso comune; ma via via che i soldi erano venuti a mancare, il suo direttore e le velleità radicali della rivista erano entrati a far parte delle specie a rischio di estinzione: «se la cosiddetta bellezza risiedeva in lei in forma precaria, la ferocia ne sarebbe stata un degno sostituto». È sposata con Dan, una rockstar mai decollata, e entrambi sono legati, più di quanto non lo siano l’uno all’altra, al fratello di lei, Robbie, amorevole zio dei bambini della coppia, da poco abbandonato, quando entra in scena, dal suo fidanzato Oliver, che infatti non compare mai.

Anche Dan ha un fratello: si chiama Grath, è un artista in ascesa, nonché padre di un bambino concepito insieme alla vecchia amica Chess grazie alla inseminazione artificiale, che si scopre desideroso di assumersi gioie e sacrifici della paternità e si dice persino innamorato, mentre la ragazza acidamente gli notifica il reciproco patto di non vicinanza.

La complicità tra i due fratelli Walker – Isabel e Dan – ha concepito un terzo uomo, ma è una presenza virtuale, la disincarnata proiezione del loro bisogno di difesa dal mondo degli adulti: «Se Wolfe fosse reale sarebbe lo sfuggente protagonista della storia… il principe il cui bacio potrebbe aggiustare tutto se solo fosse in grado di trovarti, addormentato nella tua bara di vetro in mezzo al bosco».

Tutto si svolge a Brooklyn, lo stesso giorno – il 5 aprile – di tre anni successivi – dal 2019 al 2021 – uno spazio in cui ciò che nel frattempo è accaduto appartiene alla più prevedibile delle storie, inframezzate dalle più scontate conseguenze, a loro volta sfociate nel più facilmente immaginabile dei finali: quasi una rivendicazione, da parte di Cunningham, dell’evidenza per cui tutto quel che conta, nella vita della finzione, si svolge sulla superficie di quella sequenza di lettere che chiamiamo scrittura.