Messico, «manca una sinistra capace di nuovi immaginari»
Messico al voto Un panorama politico desolante, schiacciato su insolite alleanze. Intervista a Juan Villoro
Messico al voto Un panorama politico desolante, schiacciato su insolite alleanze. Intervista a Juan Villoro
«Ho votato per la prima volta nel 1976, e in quell’occasione c’era un solo candidato alla presidenza del Messico, José López Portillo, del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri). Stanca delle frodi elettoriali, l’opposizione decise di non presentarsi per evidenziare la farsa» racconta al manifesto Juan Villoro, scrittore e giornalista, editorialista del quotidiano Reforma.
Il prossimo primo luglio in Messico si torna a votare per eleggere il presidente della Repubblica. I candidati sono quattro, ma secondo Villoro la situazione è anche peggiore rispetto a 42 anni fa: «È vero che per il mio debutto alle urne non c’erano alternative, ma potevamo sognare che in futuro, quando ci sarebbe stata lotta aperta tra partiti politici, la situazione era destinata a migliorare.
La realtà era pessima, ma la speranza era in salute. Oggi, invece, né la realtà né l’illusione ci soddisfano. Siamo di fronte a una doppia crisi».
Che Paese arriva al voto?
Il Messico è una delle democrazie più costose e fallimentari al mondo. Le campagne elettorali durano troppo, e i partiti politici si auto-assegnano risorse che nessuno controlla (5,3 miliardi di pesos all’anno, pari a circa 230 milioni di euro). Il Pri ha governato il Paese per 71 anni, fino al 2000. Nell’epoca del “partito unico”, la democrazia era una congettura, una mera speranza. Pensavamo però che quando avremmo avuto elezioni vigilate e credibili tutto sarebbe stato diverso, e avrebbero vinto candidati magnifici. Se Manuel Vázquez Montalbán, con ironia, disse «stavamo meglio contro Franco», noi potremmo replicare: «Stavamo meglio contro il vecchio Pri».
I partiti hanno visto nella democrazia un affare, che non punta a risolvere i problemi ma ad amministrarli. Questo porta a stringere alleanze che non rispondono ad ideali, ma a interessi e opportunità. Come si spiegherebbe, altrimenti, che il Prd (Partido de la Revolución Democrática), il partito della socialdemocrazia per quel che ne sappiamo, sia alleato del Pan (Partido de Acción Nacional), conosciuto per essere di destra, e che Morena (Movimiento de Regeneración Nacional), che è di sinistra, sia alleato al partito evangelico? La delusione di fronte a tutto questo è profonda.
Ha appoggiato la candidatura indigena indipendente di Marichuy, María de Jesús Patricio Martínez. Che significato ha la sua esclusione dal voto?
Era l’unica candidata veramente onesta, e l’unica che non ha fatto imbrogli. Il 94% delle firme raccolte per presentarsi come indipendente sono state validate, ma in Messico chi è onesto è un fuorilegge, e così il suo nome non è nella lista dei votabili.
Dove trovate però coloro che hanno raccolto l’inaudito numero di firme necessarie, 867mila. Ovviamente, Marichuy non avrebbe mai vinto, non aveva i mezzi economici per competere, ma con la sua esclusione si è persa l’opportunità di ascoltare la voce dei cittadini più poveri, quelli che conoscono meglio i problemi del Paese, per averli sofferti.
Tra una conferma del Pri (tornato al potere nel 2012 con Enrique Peña Nieto) e il Pan quale sarebbe l’opzione peggiore, oggi?
Il Pri ha governato per 71 anni al margine della democrazia, e facendo di tutto per evitarla. Ha reso la politica uno strumento per arricchirsi a partire dal potere, permesso la corruzione e l’impunità, ha convertito il governo in un “ramo” del crimine organizzato. Non c’è niente di peggio.
Crede che Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo), candidato di Morena, possa realizzare una trasformazione della società?
Amlo è un importante attore della lotta sociale, per la terza volta candidato alla presidenza. Non rappresenta però un’alternativa concreta, né è capace di lavorare in gruppo. Dipende essenzialmente dal suo carisma (straordinario nelle piazze, molto debole nei dibattiti). Il suo grande problema è che per raggiungere il potere ha rinunciato a essere diverso, stringendo alleanza con politici che sono l’opposto delle idee che lui dovrebbe rappresentare. Stanno dalla sua parte ex membri reazionari del PAN (Espino, Germán Martínez, Gabriela Cuevas), leader sindacali corrotti (Napoleón Gómez Urrutia, Elba Esther Gordillo), evangelici e pentecostali del partito Pes, ex membri del Pri (Esteban Moctezuma e Manuel Bartlett, quest’ultimo responsabile della frode elettorale del 1988).
Questo mix non è incoraggiante. Per anni, Amlo ha criticato la “mafia del potere”, però le si è avvicinato per poter governare. Gore Vidal ha detto che negli Usa le elezioni sono decise dal denaro, e che un candidato che non abbia ricevuto almeno dieci tangenti dalle grandi imprese non ha la possibilità di vincere. In Messico i patti politici definiscono tutto: per riuscire, bisogna umiliarsi dieci volte. Per certi versi, oggi AMLO si presenta come un oppositore ad Andrées Manuel Lopez Obrador che era candidato nel 2006. E la cosa triste è che ha più possibilità di vincere oggi.
Che cosa manca, oggi, in Messico?
Chiunque immaginerà che in un Paese con 50 milioni di poveri, due quinti dei quali in situazione di povertà estrema, popoli indigeni spogliati delle loro terre e senza diritti, femminicidi, discriminazione rampante e disuguaglianze sociali crescenti, ci sia un partito di sinistra disposto a modificare la realtà.
Ma non è così.
L’autentica trasformazione della realtà pare un’illusione del passato, una forma di nostalgia. Per fortuna, i più poveri non smettono di lottare e organizzarsi. La campagna di Marichuy ha permesso che per la prima volta le comunità di tutto il Paese articolassero un processo comune di riconoscimento dei problemi. E questo non è un progetto che riguarda solo gli indigeni, come una riserva folkloristica, ma un’idea di rinnovazione che può impegnare tutta la società. Una comunità futura, con nuove forme di partecipazione in una democrazia diretta, è in marcia. Ci vorrà tempo, ma è in movimento. “Andiamo piano perché il cammino è lungo”, dicono gli zapatisti.
*Juan Villoro è nato a Città del Messico nel 1956. Scrive, anche per il teatro, e libri per bambini. Tra le sue opere di narrativa «Il testimone» (Gran Via, 2016), storia di un professore messicano emigrato in Europa, in esilio volontario, che torna nel 2000 dopo la sconfitta del PRI.
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