Se nell’intera America latina il petrolio sembra ancora dettare legge, la resistenza all’estrattivismo diventa sempre più forte. Lo dimostra il caso dell’Ecuador, dove il prossimo 20 agosto, insieme alle elezioni anticipate, si svolgerà anche il referendum sullo sfruttamento petrolifero nel parco nazionale Yasuní, nell’Amazzonia ecuadoriana, fortemente voluto dal movimento Yasunidos e sostenuto da oltre 700mila persone.

Grazie al via libera della Corte costituzionale i cittadini ecuadoriani potranno esprimersi a favore o contro la possibilità di lasciare indefinitamente sotto terra il petrolio del cosiddetto Blocco 43, l’area del giacimento Ishpingo, Tiputini e Tambococha, all’interno di uno dei luoghi più ricchi di biodiversità del pianeta, per di più abitato da popoli in isolamento volontario.

La questione si trascina almeno dal 2007, quando il governo presieduto da Rafael Correa aveva annunciato all’Assemblea generale dell’Onu il progetto di rinunciare a estrarre 850 milioni di barili di petrolio, in cambio della costituzione da parte della comunità internazionale di un fondo di compensazione di 3.600 milioni di dollari (pari alla metà dei guadagni che il paese avrebbe ottenuto dall’estrazione petrolifera), in quello che era sembrato un nuovo e rivoluzionario modo di affrontare la questione del riscaldamento globale.

SALVO POI, cinque anni più tardi, dire addio all’iniziativa, attribuendone il fallimento all’indifferenza della comunità internazionale che aveva investito nel progetto solo lo 0,37% dei fondi previsti e spingendo l’acceleratore sull’estrattivismo petrolifero e minerario, con la conseguente rottura con il movimento indigeno.

Sedici anni più tardi, quel sogno torna a essere possibile. «È un momento di emozione e di festa», ha dichiarato Esperanza Martínez, di Acción Ecológica, dopo il pronunciamento della Corte costituzionale: una decisione storica che, secondo il movimento Yasunidos, segna «un precedente globale per la difesa dei diritti umani e della natura», dimostrando come sia possibile «fermare le attività estrattive attraverso processi democratici».

Anche in Brasile – malgrado la guerra scatenata dalle destre e dall’agribusiness contro gli ecosistemi del paese e i popoli che se ne prendono cura – ambientalisti e indigeni hanno avuto almeno un motivo per festeggiare: il rifiuto dell’Ibama, l’Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali rinnovabili, ad autorizzare la Petrobras a trivellare un pozzo petrolifero nel delta del Rio delle Amazzoni, al largo della costa dell’Amapá.

È ancora presto, però, per cantare vittoria. Perché contro l’Ibama e la ministra dell’ambiente Marina Silva si è scatenata un’offensiva tanto più pericolosa in quanto proveniente anche dalle fila governative: se il ministro delle miniere e dell’energia Alexandre Silveira ha attivamente sostenuto il ricorso della Petrobras contro la decisione dell’Ibama, e quello delle relazioni istituzionali Alexandre Padilha si è ipocritamente lanciato nella difesa della conciliazione tra «sviluppo economico e sfruttamento delle ricchezze naturali», l’influente senatore Randolfe Rodrigues ha addirittura abbandonato per polemica il partito di Marina Silva (Rede Sustentabilidade), trovando subito accoglienza nel Pt. Benché con toni più morbidi, anche il vicepresidente Geraldo Alckmin si è pronunciato a favore dell’estrazione petrolifera, aggiungendo che dovrà essere Lula a dire l’ultima parola.

LE DICHIARAZIONI del presidente non sono state però molto rassicuranti. «Se estrarre questo petrolio creerà problemi al Rio delle Amazzoni, certamente non verrà sfruttato. Ma non lo penso, perché è a 530 kilometri di distanza», ha detto Lula, sorvolando non solo sulla grande vulnerabilità socio-ambientale della regione, ma anche sull’aumento delle emissioni climalteranti che ne deriverebbe. E proprio mentre il presidente ha annunciato che sarà la città brasiliana di Belém a ospitare la Cop30 nel 2025.

Il presidente dell’Ibama Rodrigo Agostinho non sembra tuttavia farsi intimidire: «È altamente improbabile – ha detto – che si registri un cambiamento di posizione solo per pressioni politiche».