L’odio dei poveri ha un motore: il lavoro. Quello che c’è ed è precario, brutale, pagato sempre peggio, talvolta persino gratuito. E, soprattutto, il lavoro che non c’è. Quello che i poveri definiti «occupabili» – cioè considerati «abili al lavoro» – devono inseguire, iscrivendosi alla cabala di corsi di formazione, sperando che portino a un lavoro, qualsiasi esso sia. E anche a 350 euro, sperando che arrivino. Perché nemmeno l’iscrizione a un corso potrebbe garantirlo, dicono le cronache di queste settimane.

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Chi, tra gli «occupabili», si trova in questo girone infernale, ieri ha ricevuto un supplemento di pena da Giorgia Meloni nel «premier time». «Se non sei disponibile a lavorare – ha detto – non puoi pretendere di essere mantenuto con i soldi di chi lavora ogni giorno».

La frase è emblematica . Vuole dire che la povertà è colpa di chi non vuole lavorare. Perché è noto che oggi, chi tra i poveri lavora, sta bene. Si riscatta dalla colpa della povertà. Si emancipa dal bisogno. È assunto nel paradiso delle merci e ne gode beato. Di bestialità simili è disseminatala storia del capitalismo. Le dicevano già tra il 1597 e il 1601, quando Elisabetta I varò le prime «leggi sui poveri» in Inghilterra. Oggi, è cambiata l’epoca, ma siamo ancora allo stesso punto. I poveri, anche quando lavorano, non escono dalla povertà. Li chiamano working poors. L’anglismo serve a infiocchettare l’odiosità di una vita bisognosa, ma non serve a evitare gli insulti quando qualcuno perde il lavoro e non ne trova un altro.

La frase è anche lacunosa. Meloni, infatti, non ha detto che il suo governo è intervenuto sui criteri che regolano la «disponibilità a lavorare» del povero. Criteri che non riguardano la volontà di un individuo, ma che sono usati per condannarlo moralmente contrapponendolo a chi «lavora ogni giorno» e, magari, arriva a considerare «scroccone» o «lazzarone» chi riceve un sussidio.

Di preciso, parliamo dell’abbassamento della soglia dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee): da 9.360 a 6 mila euro annui. Non è una questione tecnica, ma politica. È questa norma ad avere escluso gli «occupabili» dall’accesso al «supporto per la formazione e per il lavoro», la misura a loro destinata, parallela all’«assegno di inclusione» destinato ai poveri ritenuti «inabili al lavoro». I dati sono stati forniti da Meloni: su 249 mila potenziali «occupabili» che percepivano il reddito di cittadinanza, solo 55 mila hanno presentato domanda, poco più del 22% della platea. «È possibile che alcune di queste persone abbiano trovato lavoro privatamente – ha detto la presidente del Consiglio – ma è possibile anche che alcune di loro non cercassero un’occupazione o preferissero lavorare in nero: questa è la ragione per la quale sono molto fiera del lavoro che abbiamo fatto».

Quale lavoro possa trovare chi ha un reddito Isee superiore ai 6 mila euro ma inferiore a 9.350 euro, è immaginabile. E non sorprenderebbe il fatto che sia «in nero». Meloni, anche qui, non ha detto l’essenziale: il problema non si porrebbe, se ci fosse un datore di lavoro disposto ad assumere con un contratto e non a sfruttare «in nero»; se ci fosse un governo disposto a disboscare la giungla dei contratti precari; se ci fosse un Welfare con un reddito di base, un sistema fiscale giusto, sanità e scuola pubbliche non stritolate nella morsa dell’aziendalizzazione. E un’«autonomia differenziata» all’orizzonte che farebbe un macello.

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Attribuire le responsabilità di un sistema alle sue vittime è lo scopo di chi vuole governare i poveri e non liberare la società dalla povertà. C’è chi è «fiera» di averlo fatto, come Meloni. A chi, invece, oggi la critica basterebbe ricordare che una soglia più alta non serve ad «abolire la povertà» come pure è stato detto da un balcone di palazzo Chigi.