Stefania è il nome inventato di una donna reale che vive in una delle province del Lazio. La sua storia è esemplare: vive la condizione di chi vive nel purgatorio del «sussidio di formazione e lavoro», la misura destinata ai poveri «occupabili» voluta dal governo Meloni al posto del «reddito di cittadinanza». Ha concluso un corso di formazione di 150 ore ma, come molte altre persone, non ha ancora ricevuto i 350 euro mensili che secondo la legge avrebbe dovuto avere all’inizio. Nella giungla degli «enti preposti» – li chiama così – a seguire il suo caso, nessuno è riuscito ancora a spiegarle perché non li ha ancora ricevuti.

IL PROBLEMA sembra essere dovuto alla difficile interoperabilità tra le piattaforme digitali regionali con quella del Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa. «Mi rimbalzano dall’agenzia per le politiche attive del lavoro (Anpal) al centro dell’impiego, dall’Inps al ministero del lavoro – racconta – Le piattaforme sono micidiali, mancano sempre dei pezzi, sembrano avere una vita autonoma. Ci dicono che non dipende dagli uffici, che c’è un caos dappertutto per qualche ignoto blocco. Ma questo è vergognoso e inaccettabile».

«MOMENTANEAMENTE disagiata». Stefania si definisce così. Il concetto illumina un sentire comune che va al di là di una condizione individuale. «Non vuol dire essere incapace o indolente, vuol dire non avere avuto la fortuna di molti di voi di svolgere un lavoro in un posto fisso – spiega – Noi siamo occupabili e non collocabili, dipendiamo da altri, e il disagio momentaneo diventa un’ etichetta, siamo trasformati in una zavorra».

«SENTIRSI ZAVORRA» è una metafora che spiega l’umiliazione di chi chiede un diritto di esistere universalmente garantito. Il peso del «disagio» riduce di solito alla rassegnazione. Non è invece il caso di Stefania. Il disagio è anche un motore che aiuta a non restare in silenzio quando «veniamo sopportati, e non supportati, come ci spetterebbe per diritto in un momento di difficoltà».

UN’ELEMOSINA. Così Stefania definisce il sussidio negato. «È un controsenso combattere per averla. Non dovrebbe essere richiesta, né elargita e poi interrotta come è avvenuto con il reddito di cittadinanza che ho percepito ma mi è stato tolto. Altri lo percepiscono pur non avendo 60 anni, né figli o invalidi a carico. Tra poco gli cambieranno il nome, ma il problema è che in Italia resteranno poveri di serie A e poveri di serie Z».

ATTIVISSIMA lo è, Stefania. Ora il suo lavoro è quello di chi cerca un lavoro. Prima che le fosse tolto il «reddito di cittadinanza» ha fatto un corso da 600 ore per grafica multimediale. Allora lei prendeva la metà della media prevista perché non paga l’affitto e vive da sola. Lei ha saperi da progettista e disegnatrice, fece a suo tempo studi di architettura. «Il corso mi è servito – ricorda – erano anni che non lo usavo, disillusa del lavoro. Ho avuto un attestato, spero mi serva».

NEGLI ULTIMI TRE mesi ecco cosa ha fatto: a luglio ha finito un «progetto utile alla comunità» (Puc). Era un lavoro non retribuito e non è servito per essere assunta. «I Puc prevedono fino a 16 ore a settimana uguali per tutti, sia per chi prende un sussidio da 300 euro che 800 o altro. Io lavoravo in un ufficio – racconta Stefania – Facevo front office, il protocollo, aggiornavo un sito web. Una bella responsabilità. Va contro ogni logica il fatto che altri prendevano 1.500 euro al mese, io prendevo, zero, anche se facevo le stesse cose degli impiegati. È molto frustrante. Sei brava, ti dicono. Ma alla fine però “ciao ciao”. Sembra sempre di fare le cose a vuoto, buttare le esperienze in un pozzo. Almeno un rimborso spese, almeno datemi i contanti per i periodi brutti. Il reddito di cittadinanza non era una liquidità, lo gestisce lo Stato che ti fa comprare quello che dice lui. Non si può mettere da parte nulla, si deve spendere entro il mese».

IL PRIMO SETTEMBRE scorso Stefania si è iscritta al portale del «Supporto per la formazione e il lavoro», ha inserito i documenti, ha scelto tre agenzie di collocamento, ha fatto un corso di formazione da 150 ore, si è candidata a fare altri lavori non retribuiti con i Puc. E ha fatto anche un colloquio per un posto di guardiania in un’azienda. «Mi hanno detto di firmare il contratto, io volevo leggerlo. No, firmalo subito, mi hanno detto. Avrei dovuto iniziare all’indomani. Era un lavoro dalle sei di mattina alle sei di sera, non mi hanno detto quanto mi davano. Io quel giorno non potevo. Dovevo portare mio padre a fare una Tac. Purtroppo oggi papà non c’è più».

STEFANIA È «un codice rosso». «Mi è capitato di dirlo, nonostante le tante belle parole su di noi donne vittime di violenza, in alcuni uffici non sapevano neanche il significato dell’essere un codice rosso. Credevano fosse una specie di invalidità fisica – racconta – In effetti non è del tutto errato considerare il codice rosso come un invalidità. Ma essere vittima non è una scelta, né una colpa. Essere ridotte alla povertà perché lo Stato non è intervenuto è una complicità nella distruzione della dignità di una donna».

IL «REDDITO DI LIBERTÀ»: lei potrebbe chiederlo. «Ho fatto richiesta, ma anche quello è piombato nell’oblio, non ne ho notizia. Donne come me che denunciano e combattono dovrebbero essere ammirate e sorrette per sopravvivere. Una povera mortale disagiata come me, riuscirà a trovare il bandolo della matassa e sbloccare la situazione? Direbbero che sono pretenziosa. No, disperata, direi».