Giorgia Meloni, i suoi fratelli e gli alleati senza contare la tripudiante sorella Arianna («abbiamo stravinto»), hanno tutti i motivi per festeggiare. La loro è stata una vittoria tonda che derubrica la sconfitta in Sardegna a incidente, infligge un duro colpo alla sensazione che la temperie politica fosse cambiata, premia la presidente che con l’elmetto ha guidato la riscossa. Il fatto poi che in Abruzzo nessun presidente uscente fosse mai sopravvissuto al singolo mandato aggiunge la ciliegina sulla torta: «Il primo presidente confermato: che grande orgoglio», parola di esultante premier.

Insomma, l’occasione per un pranzetto di festeggiamento tra i quattro leader, subito prima del consiglio dei ministri dedicato al fisco, era d’uopo. Ma tra i quattro commensali solo tre festeggiano sul serio, il quarto, Salvini capitan Matteo, oltre una scarna consolazione di corto respiro non può andare. Meloni, è vero, sulla carta e pur da primissimo partito ha perso qualche voto, 35mila o giù di lì. Ma sono finiti al “suo” candidato vincente, la lista di Marsilio, e dunque poco male. Tajani è il più raggiante e vagli a dar torto: quasi il 14%, vento in poppa, prontissimo a candidarsi alle europee visto che si è scoperto a sorpresa acchiappavoti. Sempre che gli alleati siano d’accordo e lo saranno: nella coalizione solo lui può tentare l’arrembaggio all’elettorato moderato, quello che negli energumeni Calenda e Renzi di moderato trova ben poco. Molto meglio il democristiano in tinta azzurra, che del resto, avendo imparato la lezione dello scudocrociato, ha raggiunto le vette abruzzesi riempiendo le liste di notabilato con paniere di voti in dotazione. La conquista di quegli elettori è l’obiettivo che dichiara apertamente, dopo aver dedicato la vittoria al nume san Silvio Berlusconi: «Ci sono tanti elettori di sinistra delusi perché ritengono che questa alleanza snaturi la vocazione moderata e guardano con interesse a Fi». Persino Noi moderati nel suo piccolo, col 2,6% e una consigliera rieletta se non proprio lo champagne almeno uno spumantino può stapparlo.

Salvini ci prova a proclamarsi vincitore pure lui, «Bella vittoria per il centrodestra e buon risultato per la Lega che supera il M5S», ma è un’impresa impossibile. Non tanto in termini di percentuali. Rispetto al 2019 il crollo è da inabissamento di Atlantide ma si sapeva. Rispetto alle politiche 2022, col 7,56% il Carroccio perde solo un puntarello scarso e quasi tira il fiato. Il guaio è politico. Quasi doppiato da Fi con il 13,44%, Salvini assiste impotente a una mutazione radicale della coalizione di cui fa parte e che aveva vinto meno di due anni fa le elezioni. I pilastri allora erano i due partiti della destra conclamata che si rivolgevano, con sfumature diverse soprattutto in politica estera, alla stessa platea elettorale, con a traino un terzo partito più centrista, considerato da tutti vicino alla scomparsa. Il quadro che si configura oggi è opposto: Forza Italia è sopravvissuta alla scomparsa del capo ed anzi appare lanciatissima. Si rivolge a un elettorato diverso da quello di FdI, quello che faticherebbe a votare un partito compiutamente di destra radicale, e ciò lo rende prezioso. È la sezione italiana del Ppe col quale i Conservatori di Meloni sognano l’alleanza privilegiata in Europa e anzi la coalizione italiana di quell’asse europeo è quasi il laboratorio. Si configura insomma una coalizione le cui due gambe principali sono FdI e Fi al cui interno, se la tendenza sarà confermata dalle europee, la Lega di Salvini ha spazio angusto e sempre più soffocante.

Per la premier, che come leader della coalizione ha il compito di risolvere il rebus prima che diventi esplosivo, sarebbe per molti versi meglio se la Lega tornasse nelle mani del partito del nord: una Lega fortemente concentrata sul proprio territorio, attenta alla rappresentanza di interessi ma non concorrenziale sul piano di quella ideologica e d’opinione sull’intero terreno nazionale. È una strada che forse si aprirà domani. Ma per ora Meloni dovrà fare i conti con un Salvini sempre più con le spalle al muro. Dunque lo avverte, fingendo di parlare della sinistra: «L’importante non è che un campo sia largo. È che sia coeso».