Melilla, geografie di controllo e resistenza dei bambini
Sylvain George Conversazione col regista francese sul suo nuovo film, «Nuit obscure - au revoir ici, n’importe ou». Le strategie infantili, gli effetti delle politiche migratorie europee
Sylvain George Conversazione col regista francese sul suo nuovo film, «Nuit obscure - au revoir ici, n’importe ou». Le strategie infantili, gli effetti delle politiche migratorie europee
Un ragazzino appare all’improvviso, agile, veloce, si arrampica su una corda che arriva fino al ponte della nave in partenza per l’Europa. Sembra avercela fatta ma all’improvviso scivola giù. Gli altri si avvicinano, tutti insieme scivolano via nella notte per sfuggire alla polizia. Melilla, enclave spagnola, era una fortezza nel suo passato colonialista, lo è ancora oggi come baluardo di «difesa» dell’Europa dai migranti che da lì potrebbero entrarvi. Nella città girano giovani, meno giovani, ciascuno aspetta il suo momento per passare dall’«altra parte» rischiando la vita. Lo spazio cittadino si è conformato a questa politica del controllo, fili spinati, barriere, polizia ovunque. È qui che il regista francese Sylvain George lavora da diversi anni filmando il quotidiano dei migranti che abitano Melilla, con pazienza e soprattutto con la cura di non rinchiuderli nuovamente nelle immagini in forme scontate. Il progetto di Nuit obscure nasce da questa attesa sospesa tra due mondi, e illumina gli effetti delle politiche restrittive sui corpi, sulle loro condizioni di vita, sulla rappresentazione di se di chi ne è l’obiettivo. Se nel primo capitolo al centro vi erano gli adulti, in questo nuovo Nuit obscure – au revoir ici, n’importe ou – presentato e premiato al festival di Locarno – i protagonisti sono dei ragazzini che nella loro lotta di sopravvivenza sembrano inventare possibili traiettorie di rivolta.
La geografia del controllo disegnato a Melilla sembra ormai estendersi all’intera Europa come dimostra quanto è accaduto in Francia negli scorsi mesi, l’omicidio di Nahel Merzouk, ucciso da un poliziotto, le discriminazioni, le reazioni del governo Macron.
Il punto è che un ragazzo di diciassette anni viene ammazzato da un poliziotto con un colpo di pistola a bruciapelo perché guida senza patente, e il poliziotto gode di impunità. La polizia francese è ultra sollecitata da Macron per assicurare il proprio potere, la sua autorità. E la violenza che era già fuori misura durante le proteste dei Gilet Jaunes è estremamente peggiorata. Grazie a questa impunità i poliziotti possono stabilire dei rapporti di forza allucinanti con un governo che ha virato totalmente a destra. L’episodio della colletta per quel poliziotto è stato vergognoso:un tizio di estrema destra è riuscito a raccogliere un milione e mezzo di euro per uno che ha ucciso un ragazzo. Senza dimenticare le violenze terribili che sono state commesse in altri casi dai poliziotti. Ma ormai i rapporti di forza sono a loro vantaggio e portano tutti, compresa la sinistra, a fare un passo indietro rispetto alle loro rivendicazioni. Siamo in un momento storico di totale liberismo autoritario che sconfina nel neofascismo.
Parlavi dei Gilet Jaunes, pensi che questo processo sia cominciato lì?
No, risale a molto prima, almeno al 2006, da quando filmo i movimento sociali e quindi la polizia. È vero però che mentre documentavo Occupy Madrid ero rimasto molto colpito dalla brutalità dei poliziotti spagnoli rispetto a quello che vedevo in Francia, adesso a confronto sembrano degli agnellini. L’evoluzione della violenza poliziesca in Francia si vede nei cambiamenti di equipaggiamento e di metodo, nei dispositivi messi in campo per controllare la protesta e la collera: tutti riflettono l’applicazione di una politica liberale che è ormai sfacciata, che mostra un aperto disprezzo verso le classi popolari – lo stesso manifestato da Sarkozy quando definiva i cittadini delle banlieues «feccia» promettendo che avrebbe ripulito tutto. Ma le periferie bruciavano perché c’era stato il detonatore dei due ragazzini rimasti fulminati sui cavi elettrici mentre la polizia li inseguiva (nel 2005, Zyed Benna e Bouna Traoré, nella periferia di Clichy sous Bois, ndr),e prima ancora l’umiliazione sociale e politica che quel disprezzo aveva acceso. Con Macron lo stesso disprezzo si è esteso all’intera popolazione, se pensi che chiamava davanti ai ministri i Gilet jaunes «Jojo», un termine dispregiativo che oggi indica tutti quelli che manifestano. Un’arroganza di classe orribile.
«Nuit obscure – au revoir ici, n’importe ou» è il secondo capitolo di un progetto che da anni si confronta con il vissuto dei migranti a Melilla. Come è iniziata questa ricerca e a cosa vuole rispondere?
Volevo fare un film sui migranti che non fosse un modo per etichettarli ma che invece permettesse di capire il funzionamento delle politiche europee in materia di immigrazione. Sono politiche pubbliche quindi riguardano ciascuno di noi, perciò mi interessava anche indagare in che modo i dispositivi che utilizzano tali politiche influiscono sulla vita della collettività, riconfigurano i luoghi, impattano i corpi e le narrazioni; e come dialetticamente le persone possono reagire e ridefinire le strategie del quotidiano per superarle con soluzioni illegali o percorrendo nuovi tragitti. La prima parte esplora l’esternalizzazione delle politiche migratorie, i paese europei fanno accordi con i governi nel Maghreb o altrove per gestire i flussi – l’Italia con la Libia, la Spagna col Marocco. Melilla che è una città storica, coloniale, è l’ultima colonia spagnola europea e una frontiera tra Marocco e Spagna, tra Africa e Europa. È sul terreno che cerco di capire queste politiche insieme alle persone che ne sono investite.
La scelta formale è altrettanto politica, afferma un racconto che restituisce il quotidiano delle esistenze rifiutando la dimensione della vittima.
L’idea era di scoprire questa realtà con i ragazzini che ne sono parte. Per me la chiave è il tempo. Se trascorri del tempo con i tuoi protagonisti, questo genera intimità. Ho voluto utilizzare dei movimenti narrativi diversi, nel primo non sappiamo cosa accade, a volte i gesti si ripetono, li accompagnamo nei loro giri, poi con l’arrivo dell’inverno l’atmosfera si fa più densa, più emotiva. Ho seguito il ritmo delle persone che filmavo, per me è fondamentale capire come funzionano i soggetti che riprendo e le singolarità. Dopo cerco tradurre tutto cinematograficamente. Non mi interessano quei documentari basati sulle testimonianze, non saprei neppure come farli, credo che sia più politico esprimere le situazioni attraverso le immagini.
C’è in questo approccio un tuo metterti in gioco che è molto forte, che dichiara uno sguardo politico, un desiderio di ascolto, un’esperienza che interroga la rappresentazione dei migranti oggi e il nostro presente.
Come dicevo per capire il funzionamento delle politiche migratorie devo essere sul campo, passare del tempo che le persone che le vivono. Man mano che scavi nei comportamenti e nelle reazioni delle persone iniziano a rivelarsi altre realtà che permettono una diversa presentazione delle cose. I ragazzini al centro di questo film mettono in atto una sorta di politica infantile, hanno cioè la capacità di trasformare in gioco le politiche di controllo creando uno spazio pubblico più poroso, che non è politicamente articolato ma che disegna altre forme del mondo. L’uso che fanno delle strade, con i tombini che diventano i nascondigli dei vestiti, del cibo, gli permette di costruire il loro combattimento. Non sono vittime ma soggetti che sviluppano strategie dell’agire, incendiari della società che affermano motivi estetici e politici inattesi. Li chiamano arraga, «quelli che bruciano», bruciano le loro carte d’identità, «bruciano il mare», il fuoco serve a trasgredire le regole, a inventare una politica radicalmente nuova che apre a altre visioni del mondo mettendo in discussione quello che trovano. Sono stati feriti, picchiati, hanno subito violenze ma a volte vogliono solo giocare – con la polizia, con le autorità. Ogni persona è un soggetto politico e poetico, per questo sono convinto che è fondamentale condividere l’ esperienza di questi ragazzini in un vero scambio, in un dialogo. La loro rivolta nasce dal concetto dell’infanzia come stato che mantiene la capacità di non essere sottomessi all’abitudine. Questo stesso stupore filosofico dovrebbe portare a rifiutare la discriminazione che in Francia riguarda le periferie ma anche i codici con cui vengono narrate. Nuit obscure- au revoir ici, n’importe ou non vuole essere un film sui bambini ma sull’esperienza infantile del mondo. Ogni gesto dei ragazzini contiene l’infanzia che è in noi adulti con le responsabilità a cui dovremmo fare fronte.
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