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Maysoon Majidi e le altre nella trappola del reato di «favoreggiamento»

Maysoon Majidi e le altre nella trappola del reato di «favoreggiamento»Barcone di migranti nel Mediterraneo – Ap

Il mondo libero Marjam Jamali, anche lei iraniana, ai domiciliari dopo sette mesi lontana dal figlio. «Il problema è una legge ingiusta: nessuno dovrebbe stare in carcere per aver attraversato un confine o aver aiutato qualcun altro a farlo», Richard Braude, Arci Porco Rosso

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 13 settembre 2024

Non solo Maysoon Majdi. Sono migliaia i procedimenti per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aperti in Italia «ex articolo 12» del testo unico, quello che tiene dentro tutto: dalle condotte solidali allo scopo di lucro. Secondo i dati ottenuti da Altreconomia tra il 2004 e il 2021 sono state denunciate per questo reato 37.600 persone, ma solo in un caso su sei è stato contestato il fine economico. In mezzo sono finiti italiani e stranieri, tanti uomini e qualche donna.

Come Marjam Jamali, anche lei iraniana, anche lei arrestata allo sbarco con l’accusa di scafismo. Non un’attivista politica, come Majdi. Semplicemnte una persona in fuga dal regime insieme al figlio di otto anni. Il 26 ottobre scorso il caicco su cui era partita tre giorni prima dalla Turchia è stato intercettato al largo di Roccella Jonica da una motovedetta della guardia costiera.

Poteva essere la fine dell’incubo, ne è iniziato un altro. Degli uomini che hanno tentato di molestarla durante la traversata, dirà lei più tardi, le puntano il dito contro. Finisce in prigione, separata dal figlio. Riesce a incontrare un mediatore che parla la sua lingua solo dopo diversi giorni. Dietro le sbarre resta sette mesi: il 31 maggio il tribunale del riesame di Reggio Calabria la manda ai domiciliari. Pesano le preoccupazioni per il bambino.

L’8 luglio scorso è iniziato il processo, continuerà il 28 ottobre. «Sono emerse alcune discrepanze che meritano approfondimento. Ci sono aspetti che evidenziano una gestione sommaria delle indagini», ha denunciato in quell’occasione l’avvocato Giancarlo Liberati, che di accusati di scafismo ne ha seguiti oltre 150. Problemi di traduzione, mediatori poco affidabili, testimoni irreperibili, impianti accusatori traballanti sono elementi comuni in questi procedimenti, che solo negli ultimi anni hanno guadagnato l’attenzione pubblica.

Le donne incriminate, comunque, sono diverse e di varia provenienza. Una ucraina è stata arrestata nel 2011 a Crotone. Una sua connazionale e una libica sono finite in cella nel 2016 in Puglia e Calabria. Altre due sono state fermate, processate, condannate e recluse nelle carceri siciliane: E. e T., tre anni e tre e mezzo. Sono state seguite da Arci Porco Rosso, l’associazione palermitana che per prima ha avviato un lavoro sistematico su queste vicende e lo ha reso pubblico con il report Dal mare al carcere uscito nel 2021 e poi di volta in volto aggiornato.

Il caso di un’altra donna – una signora congolese arrestata nel 2019 a Bologna mentre provava a superare i controlli di frontiera con figlia, nipote e passaporto falso – è finito davanti alla Corte di giustizia Ue. I giudici del Lussemburgo dovranno esprimersi sulla legittimità del facilitators package, il combinato di una direttiva e di una decisione quadro cui si conforma l’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione italiano, secondo il quale la scriminante umanitaria è facoltativa, mentre il fine di lucro è un aggravante ma non un elemento costitutivo del reato. Questa sentenza, attesa nei prossimi mesi, potrebbe cambiare la storia dei «reati di solidarietà» in ambito migratorio.

Intanto, però, i processi continuano. «In quelli contro Majdi e Jamali sono coinvolti anche un uomo iraniano e uno turco, non vanno dimenticati – dice Richard Braude, di Arci Porco Rosso – Il problema è una legge ingiusta: nessuno dovrebbe stare in carcere per aver attraversato un confine o aver aiutato qualcun altro a farlo».

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