Si è tenuta ieri alla Corte di giustizia Ue in Lussemburgo l’udienza del «caso Kinsa». Il nome viene da Kinshasa, capitale del Congo, paese di origine di E. K. K.: donna arrestata nell’agosto 2019 all’aeroporto di Bologna con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Provava a superare i controlli di frontiera con dei documenti falsi, insieme a figlia e nipote.

LA CORTE si trova nel quartiere europeo della capitale del piccolo Stato. Il primo palazzo è stato inaugurato nel 1973, ma nel corso degli anni sono state aggiunte una serie di estensioni per far fronte all’aumento e alle trasformazioni delle funzioni del tribunale. Negli anni duemila sono sorte tre torri avveniristiche dedicate a Comenius, Montesquieu e Giustina Rocca, considerata la prima avvocata al mondo, attiva a Trani nella seconda metà del XV secolo. 

L’udienza si è tenuta alla Grande Chambre, una sorta di Sezioni unite della Cassazione, che riunisce quindici giudici di vari paesi membri, più l’avvocato generale e il cancelliere. I magistrati vestono con tuniche bordeaux che richiamano quelle dell’organo di giustizia costituzionale tedesco e hanno lo stesso taglio di quelle dei membri della Corte internazionale di giustizia dell’Aia.

A LUGLIO 2023 il tribunale di Bologna aveva chiesto alla Corte Ue di interpretare la compatibilità del facilitators package, il combinato di una direttiva e di una decisione quadro cui si conforma l’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione italiano, con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Nello specifico la direttiva impone di perseguire chi favorisce l’ingresso irregolare di stranieri sia se c’è lo scopo di lucro, sia se è assente. Solo in via facoltativa, poi, permette agli Stati membri di introdurre una scriminante umanitaria quando manca l’interesse economico. Questa discrezionalità ha causato l’apertura di migliaia di procedimenti contro attivisti, volontari e migranti per il sostegno ad attraversamenti di frontiera anche quando tali soggetti non erano coinvolti in reti criminali. Per esempio in Italia, dove la causa di giustificazione umanitaria è prevista dall’articolo 12 solo all’interno del territorio nazionale, non alle frontiere.

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Nel corso dell’udienza sono intervenuti consiglio, commissione, avvocatura generale dello Stato italiano e ungherese, la legale che difende E. K. K. Un primo dato significativo è che le diverse istituzioni non hanno mostrato accordo rispetto all’interpretazione delle questioni poste dal rinvio pregiudiziale. Il consiglio ha ripercorso la genealogia dei due provvedimenti comunitari ricordando che sono stati adottati sulla scorta della strage di Dover del giugno 2000, quando le autorità britanniche hanno rinvenuto in un camion i cadaveri di 58 migranti cinesi morti soffocati. La possibilità di perseguire anche le condotte senza fine di lucro voleva rendere più efficaci le indagini verso i trafficanti, mentre la clausola umanitaria è prevista solo in via facoltativa come compromesso con l’opposizione di un paese membro a renderla obbligatoria.

LA COMMISSIONE ha incentrato la sua posizione sull’avverbio «intenzionalmente» ripetuto dalla direttiva per l’aiuto all’ingresso irregolare: sarebbe sufficiente ad escludere il favoreggiamento nei casi di potestà genitoriale. Circostanza che però rischia di non circoscrivere adeguatamente il reato: per esempio, e su questo hanno insistito i giudici, non è chiaro se nel caso di E. K. K. si applichi anche alla nipote, mentre è certo per la figlia.

Secondo l’avvocatura ungherese le norme Ue in questione hanno l’obiettivo di armonizzare in forma minima le condotte di rilevanza penale ma non possono entrare nelle cause di giustificazione, che sono di competenza nazionale. Per l’omologo italiano la normativa attuale è già sufficiente a evitare conflitti con la Carta perché vale comunque la scriminante generale secondo cui non è punibile chi agisce in stato di necessità. Clausola che è facile applicare nei soccorsi in mare, sebbene anche lì siano stati avviati numerosi procedimenti da articolo 12 pur senza alcun rinvio a giudizio, ma non a terra. E infatti non è valsa per la donna congolese. Quando i giudici hanno chiesto perché Roma preveda la clausola umanitaria solo nel territorio nazionale e non alle frontiere la risposta dell’avvocatura è stata vaga.

LA LEGALE Francesca Cancellaro, che difende E. K. K., ha contestato le interpretazioni istituzionali e affermato che le ipotesi sono due: se vale il dato letterale della normativa questa è sproporzionata perché sanziona anche le condotte senza fine di lucro, contrastando con diversi articoli della Carta; se il dato letterale non vale il contrasto è con il principio di legalità, perché la condotta da punire non è prevedibile in maniera chiara. Potrebbe profilarsi una «illegittimità sopravvenuta», perché la Carta è diventata rilevante successivamente all’adozione della direttiva.

Tra l’altro nel novembre 2023 la commissione ha avanzato una proposta di modifica del facilitators package che ribalta l’attuale impostazione della norma e afferma che il fine economico è necessario a costituire il reato di favoreggiamento.

L’AVVOCATO GENERALE della Corte Ue presenterà le sue conclusioni il 5 novembre. Poi arriverà una sentenza che potrebbe cambiare la storia del «reato di solidarietà» in ambito migratorio.