Il tribunale civile di Roma ha giudicato colpevoli del respingimento collettivo in Libia avvenuto il 2 luglio 2018 i ministeri di Difesa e Trasporti, la Presidenza del consiglio, il capitano e l’armatore della nave Asso 29. Dovranno pagare in solido 15mila euro a ciascuno dei cinque ricorrenti: due uomini e una coppia con un figlio. Al momento dei fatti lui aveva due anni, la madre era incinta all’ottavo mese e in Italia governavano i giallo-verdi.

I cinque erano partiti dalle coste di Al Khums la notte del 30 giugno, con 150 persone. Saranno quasi 300 quelle intercettate dalla sedicente «guardia costiera» libica su più barconi. Uno di questi sarebbe affondato causando molti morti. A intervenire è la motovedetta Zawia, che però va a sua volta in panne, forse per le troppe presenze. Così viene chiamata in causa la Asso 29, nave italiana della Augusta Offshore in navigazione verso la piattaforma petrolifera Bouri. Poco lontano c’è anche un cacciatorpediniere tricolore: il Caio Duilio. Secondo le autorità finite sotto accusa sono i libici a coordinare le operazioni. Di avviso contrario i legali dei migranti che puntano il dito contro la nave della marina e i militari italiani presenti nel porto di Tripoli.

Il giudice ha prima riconosciuto la legittimità della richiesta di risarcimento e poi stabilito la giurisdizione italiana, sottolineando come l’area Sar (di ricerca e soccorso) «non è una zona marina all’interno della quale lo Stato costiero esercita la propria sovranità o giurisdizione esclusiva». Al contrario è un’area su cui questo ha dei doveri, in primo luogo il soccorso. La Sar libica, dunque, non esclude la responsabilità italiana dal momento in cui i naufraghi sono saliti sulla Asso 29, che in acque internazionali corrisponde a territorio nazionale. Il comandante aveva l’obbligo di portarli in un porto sicuro e la Libia non lo è. Lo dicono i report Onu e la sentenza della Cassazione di febbraio scorso sul caso analogo, ma impugnato in sede penale, della Asso 28.

Il giudice ha respinto la tesi secondo cui l’imbarco sulla nave italiana di un ufficiale libico avrebbe eliminato le responsabilità del comandante. Al contrario, quell’ufficiale non sarebbe mai dovuto salire a bordo. Anche perché lì vicino c’era la nave da guerra ed è impensabile che non abbia dato l’assenso, anche implicitamente. Proprio la Duilio sapeva che la destinazione sarebbe stata Tripoli: perciò avrebbe dovuto usare i suoi poteri di polizia e far condurre i naufraghi in un porto sicuro, in Italia.

Invece dopo lo sbarco nella capitale libica i migranti sono stati rinchiusi nei centri di tortura di Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar, Gharyan. «Tutti furono sottoposti a condizioni di vita atroci: sovraffollamento, cibo e acqua insufficienti. Maltrattati, abusati. Fu loro estorto denaro. Assistettero a omicidi e torture. Uno di loro si ammalò di tubercolosi», scrive nella ricostruzione dei fatti l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), i cui legali hanno assistito i migranti.

Il risarcimento danni è stato richiesto solo da cinque persone perché quelle sono riuscite ad arrivare in Italia, tramite programmi di reinsediamento, corridoi umanitari o attraversando ancora il mare. Per le altre non è semplice validare le procure dalla Libia. Gli avvocati, comunque, stanno lavorando con alcune di loro per farle entrare legalmente in Italia allo scopo di chiedere protezione. Tutti i cinque ricorrenti, nati in Eritrea, l’hanno ottenuta.

«I tribunali continuano a ripeterlo: le politiche di esternalizzazione con cui si bloccano o respingono le persone in paesi insicuri come la Libia, ma anche la Tunisia, comportano gravissime violazioni dei diritti fondamentali di cui l’Italia è responsabile», commenta Asgi.