Come di consueto, bisognerà attendere le motivazioni della sentenza per comprendere le ragioni che hanno condotto il Gup di Crotone a infliggere a uno dei presunti “scafisti” del naufragio di Cutro la pena esemplare di venti anni di reclusione e tre milioni di euro di multa. Sin d’ora, tuttavia, si possono formulare alcune considerazioni relativamente al più ampio contesto nel quale questa condanna si colloca; considerazioni che rivelano come la risposta finora offerta dal nostro ordinamento al fenomeno del traffico di migranti via mare sia risultata ingiustamente repressiva e al tempo stesso inefficace.

L’origine del problema può essere individuata nell’incontro – fatale – tra una narrazione politica, e talvolta anche giudiziaria, distorte, da cui è derivata la costruzione criminologica del soggetto “scafista”; e una legislazione penale in materia di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare caratterizzata da pene manifestamente eccessive, come la Corte costituzionale ha già avuto occasione di evidenziare (sentenza n. 63/2022).

I dati disponibili, raccolti da osservatori indipendenti, dimostrano che sempre più raramente i conducenti delle imbarcazioni sono i soggetti affiliati alle reti criminali stabilmente dedite al traffico. Troppo alti i rischi della traversata, sia per l’incolumità personale, sia per la probabilità di essere individuati dalle autorità di frontiera.

Molto più spesso, allora, gli scafisti altro non sono che migranti tra i migranti, scelti più o meno casualmente e incaricati, talvolta con minaccia, talvolta in cambio di un passaggio gratuito, di tenere dritto il timone o di chiamare i soccorsi al momento opportuno.

Proprio perché lo “scafista” è l’unico, o quasi, soggetto che le autorità riescono a individuare, ecco che su di lui si riversa tutta la domanda collettiva di repressione.

Questa domanda trova agevole sbocco, come si accennava, in una legislazione penale dotata di pene elevatissime, paragonabili a quelle previste per il traffico di esseri umani; fenomeno – va detto per inciso – giuridicamente ben distinguibile dal favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, ma spesso con esso strumentalmente mescolato e confuso, allo scopo di contrabbandare come forma di protezione delle persone (le vittime del traffico) quella che in realtà non è altro che pura e semplice protezione (penale) dei confini nazionali. Tecnicamente il reato applicabile agli scafisti è il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare pluriaggravato, in ragione del trasporto di più persone, del pericolo per la vita dei trasportati, talvolta dello scopo di lucro (art. 12 del testo unico immigrazione). Per effetto di una serie di riforme succedutesi negli ultimi vent’anni, la pena massima prevista per questo reato supera i vent’anni di reclusione, anche se non si verifica alcun incidente nel corso della navigazione.

Per quest’ultima evenienza è stato introdotto, proprio a seguito del naufragio di Cutro, il più grave reato di morte o lesioni come conseguenza del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (art. 12-bis t.u. imm.), le cui pene possono arrivare fino a trent’anni di reclusione (per rendersi conto, superiori a quella prevista per l’omicidio volontario).

La narrazione distorta del soggetto “scafista” come trafficante senza scrupoli trova dunque facile sponda in una disciplina penale che ha perso qualunque parvenza di proporzionalità, e dietro i cui continui ritocchi al rialzo, effettuati da legislatori sulla carta appartenenti a schieramenti politici molto diversi tra loro, ma in fin dei conti affetti dalla stessa ossessione per la protezione delle frontiere, si cerca di nascondere l’incapacità di elaborare soluzioni davvero efficaci per il contrasto al mercato nero della mobilità.

Soluzioni che, come per tutti i mercati neri, dovrebbero necessariamente passare attraverso la riduzione della domanda dei servizi illeciti, ossia l’apertura di vie di migrazione regolare.

* professore associato di diritto penale all’Università Statale di Milano