Prima vittima delle leggi razziali volute da Mussolini e della Shoah e poi dimenticato. Questo è successo al calciatore e allenatore ungherese Arpad Weisz – che ha calcato i campi di calcio italiani a cavallo tra gli anni Venti e Trenta – morto nel campo di concentramento di Auschwitz la mattina del 31 gennaio del 1944.

Per tanto tempo la sua storia è stata avvolta dall’oblio. Nessuno si ricordava più di lui. Oggi, grazie a libri come Dallo scudetto ad Auschwitz. La storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo (Edizioni Diarkos, euro 16) di Matteo Marani, giornalista e presidente della Lega Pro (Serie C) di calcio, è diventato il simbolo della lotta nel calcio contro ogni odio e discriminazione.
Giunto in Italia come calciatore di Alessandria e Inter, non ebbe grandi fortune a causa di un grosso infortunio che lo costrinse al ritiro. Weisz conquistò invece la fama come allenatore. A 34 anni vinse con l’Ambrosiana-Inter lo scudetto (1929-1930) e poi altri due con il Bologna (1935-36 e 1936-35).

Marani, poi nel 1938 Mussolini promulga le leggi razziali fasciaste. Da qui in inizia per il campione ungherese, ebreo, la persecuzione…
Le prime leggi razziali, quelle di settembre 1938, obbligavano gli ebrei stranieri come Weisz e famiglia a lasciare l’Italia entro sei mesi, dunque non oltre gennaio 1939. E proprio in quella data, grazie alle schede personali da me ritrovate all’archivio centrale di Stato a Roma, risulta la loro uscita dalla dogana di Bardonecchia in direzione Parigi. Pochi mesi in Francia, finché nella stessa primavera del 1939 non fu raggiunto nella capitale francese da un emissario del Dordrecht, club medio-piccolo olandese. Weisz accettò la proposta e si trasferì con la moglie e i due figli per riprendere ad allenare. Durò appena due anni, perché nell’estate 1941 – dopo l’occupazione dell’Olanda nel 1940 – le autorità tedesche obbligarono la società del Dordrecht a licenziare il proprio allenatore, «colpevole» dell’unico reato di essere ebreo. La follia si era ormai impossessata dell’Europa e del mondo.

La mattina del 31 gennaio 1944 Weisz muore ad Auschwitz; due anni prima a Birkenau erano entrati nella camera a gas sua moglie Elena e i suoi figli Roberto e Clara di dodici e otto anni…
Nell’elenco dello Yad Vashem (Ente nazionale per la Memoria della Shoah, ndr), compaiono le schede di tutti e quattro i componenti di casa Weisz. Così come i loro nomi compaiono nelle liste dei treni in partenza per Auschwitz, nel caso specifico il 2 ottobre 1942 dall’Olanda. Per il resto dobbiamo affidarci al Kalendarium, sorta di brogliaccio degli orrori di Auschwitz, e a pochissimo altro. Sappiamo per esempio, proprio dal Kalendarium, che al treno dei Weisz fu imposto di fermarsi nei campi forzati dell’Alta Slesia e qui venne fatta scendere la metà del contingente. Quasi certo che si trattasse degli uomini, abili al lavoro, mentre donne e bambini proseguirono per Birkenau. Ecco spiegato perché per Elena e i figli Roberto e Clara la data di morte è quella del 5 ottobre 1942. In pratica, furono subito uccisi al loro arrivo.

Ci sono voluti tre anni di ricerche prima che lei potesse mettere nero su bianco la storia di Arpad Weisz. Perché così tanto tempo?
Ci è voluto molto tempo perché ogni traccia di Weisz era evaporata. Aveva raggiunto grandi risultati negli anni Trenta, ma all’epoca gli allenatori non erano figure popolari e celebrate come oggi. Quando la sua vicenda divenne privata e sparì il suo nome dai giornali sportivi, ogni notizia scomparve. Nessun giornale, eccetto rarissimi accenni, si è mai più occupato di lui nel dopoguerra. Superficialità? Opera di rimozione? Difficoltà a reperire fonti diverse? Forse un insieme di tutto questo.

Nemmeno Enzo Biagi, tifoso del Bologna, conosceva la storia del campione ungherese. Come mai finì nell’oblio generale?
È la domanda delle domande. Perché la memoria, se non viene coltivata e difesa ogni giorno, può spegnersi. Accade così che una coltre di polvere si depositi su una storia, su una vicenda umana, e in qualche modo la nasconda agli occhi di tutti. È incredibile pensare che nell’oblio sia scomparso un allenatore tra i più vincenti di sempre. Uno scudetto con l’Inter, quasi tre con il Bologna, dico quasi perché l’ultimo, nel 1938-39, Weisz iniziò a vincerlo con il lavoro estivo e le prime partite, ma poi gli fu negato per la cacciata dall’Italia.

Può farci un breve ritratto di Weisz calciatore e allenatore?
Come calciatore è stato un componente della prima, grande, Ungheria degli anni Venti. Quella nazionale dettava legge. Nel 1923 aveva affrontato quella italiana: 0-0 a Genova. Weisz era un’ala sinistra, veloce e tecnica, sebbene i parametri tattici di oggi non siano accostabile ad allora. Come allenatore schierava la sua formazione seguendo i principi del momento. Se dovessimo tradurre con i numeri utilizzati oggi, un 2-3-2-3. Tutto il calcio mitteleuropeo, compresa l’Italia di Pozzo, giocava all’epoca con questo modulo, che ovviamente non c’entrava niente con la zona attuale. Weisz, insieme ai maggiori trainer del tempo, iniziò quasi certamente a ragionare anche sull’impiego del Sistema (detto anche a WM, ndr), che Herbert Chapman aveva tenuto a battesimo nell’Arsenal in conseguenza della nuova regola del fuorigioco.

Come uomo?
Da quello che abbiamo potuto capire, attraverso i pochi scritti pubblici e le lettere private scritte ai propri giocatori del Bologna, Weisz appariva come una persona semplice, educata nello stile di un’Ungheria di inizio Novecento, un’Ungheria mitteleuropea. Era figlio di un veterinario, che all’epoca – data l’importanza degli animali nell’economia contadina – era una sorta di autorità. Arpad, sempre dalle ricostruzioni, fu anche studente di giurisprudenza a Budapest. Insomma, un uomo mite, pacato, ma certamente di cultura, come dimostra anche il manuale del calcio che scrisse nel 1930. Non era un fatto usuale per un allenatore.

A distanza di 80 anni come viene ricordato?
Oggi abbiamo per fortuna molte testimonianze di Weisz in giro per l’Italia. Penso alla targa apposta sotto la curva di Maratona, allo stadio di Bologna, laddove oggi la curva ospiti porta il nome dell’allenatore ungherese. Penso alla lapide disvelata a San Siro qualche anno fa, ad Alessandria, alla via a lui intitolata a Bari dai veterani dello sport. Di tutte le celebrazioni e i ricordi, il più forte per me è la targa in memoria del figlio, Roberto Weisz, alle scuole Bombicci di Bologna. Al padre sono stati restituiti il prestigio, i meriti e la gloria che meritava, ma a Roberto è stato ridato in qualche modo un nome, una prova della sua esistenza.

Rigurgiti antisemiti sono ancor oggi presenti negli stadi italiani. Com’è possibile che ciò accada? La storia dovrebbe insegnare…
Sono dubbioso su questo. La conoscenza e il sapere sono gli unici anticorpi a certe degenerazioni e insulti alla civiltà, ma ahimè sono difficili da trasmettere, spesso in certi ambiti. A volte vedo serpeggiare una mistica assurda, criminogena, per cui si arriva a mettere la maglia di una squadra sul ritratto di Anna Frank. Non è solo idiozia e provocazione becera, del tutto evidenti, è anche una comoda fuga in certi schemi che appartengono all’Ottocento più che al Novecento. Il concetto di razza, una presunta superiorità tra gli uni e gli altri. Mi stupisce e mi addolora che in questo vieto e frusto ripiego ci caschino ragazzi giovani, che dovrebbero portare visione nuova, non una più anziana dei loro nonni. Hanno mai visto Londra, New York? Hanno idea di cosa sia una società moderna?