In una società da tempo secolarizzata e sempre più disincantata, è difficile imbattersi in veri e propri tabù. Mathieu Belezi sembra averne trovato uno: scartando da quella che chiama la «memoria autorizzata», sulla base della quale è stato possibile che molti romanzi raccontassero le vicissitudini della più recente guerra d’Algeria e la fase della decolonizzazione, è andato a rovistare negli archivi per scrivere invece sul periodo della conquista colonizzatrice, quando nel 1830 il Regno di Francia, sotto Carlo X, conquistò la Reggenza di Algeri allora sotto il dominio dell’Impero ottomano.

Non a caso, la sua tetralogia (il primo volume, C’était notre terre, apparve nel 2008), sebbene accolta da un certo successo di pubblico, non ha avuto molta eco. Esce ora il quarto volume Attaccare la terra e il sole, romanzo, pubblicato in Francia da un piccolo e coraggioso editore, Le Tripode, da cui Actes Sud ha tratto un’edizione scolastica, ora ben tradotto da Maria Baiocchi per la neonata Gramma/Feltrinelli (pp. 144, € 15,20). Lo stile singolare di Belezi si divide fra due voci di personaggi, che si esprimono alternatamente in due capitoli intitolati «Ardua fatica» e «Bagno di sangue». Da una parte la voce di una donna, Séraphine, giunta con la sua famiglia in quella terra lontana, illusa dalla propaganda coloniale che prometteva di trovarvi il paradiso; dall’altra quella di un soldato anonimo, nel quale agisce la forza militare assetata di conquista.

Le speranze dei civili non durano molto e la delusione non tarda dunque a impadronirsi di donne e uomini precariamente alloggiati in maleodoranti e insalubri tende militari: comprendono di essere confrontati a una terra sassosa («ardua fatica»), battuta da un sole rovente; si ritroveranno decimati dal colera e dalle mefitiche esalazioni della palude. Coloro che avrebbero dovuto rappresentare la Francia lavorando a fertili colonie agricole, vengono sopraffatti dallo sfinimento e dalla disillusione, come comprende lucidamente Séraphine: «era lontano il paradiso che il governo della Repubblica ci aveva promesso, e ce ne voleva per raggiungerlo, noi tutti stipati sotto le tende militari in mezzo al nulla, in quel buco sperduto che l’autorità militare aveva osato chiamare colonia agricola, ce ne voleva per raggiungerlo, e forse non l’avremmo mai raggiunto quel paradiso tanto decantato, forse non l’avremmo mai raggiunto perché non esisteva, non era mai esistito e non sarebbe mai esistito, almeno non per gente come noi».

Quanto al militare, inizialmente spettatore inconsapevole, diventa rapidamente lo spietato protagonista di tremende violenze, comuni del resto a tutti i soldati dell’esercito coloniale, sotto la guida del capitano Landron, che spiega senza mezzi termini la filosofia di cui è portatore alle popolazioni da sottomettere: «lo dico e lo ripeto, vogliamo solo innalzarvi fino a noi, portarvi nel nostro mondo in tutto e per tutto migliore del vostro! (…) E quelli che si sono opposti, che si oppongono, e che si opporranno alla luce della ragione che portiamo loro, be’, quelli, statene certi, per Dio! quelli saranno sterminati senza che la pietà trattenga le nostre sciabole, i nostri fucili e le nostre baionette! e se è necessario cancellarvi uno dopo l’altro dalle rive del Mediterraneo fino alle porte del deserto, ebbene, vi cancelleremo!». Così, parla chi si crede protagonista della «missione divina» di pacificare ed elevare una terra barbara «in nome del buon diritto», imposto a fil di spada contro la volontà degli autoctoni.

Alle due voci principali si alternano nel romanzo brani in corsivo in cui emerge una coscienza critica (super-Io o voce della condanna storica) che funziona un po’ come un coro tragico, cui spetta dire la verità sull’inferno in corso, e perciò messa presto a tacere. Consapevole della intrinseca forza politica del suo romanzo, Belezi riesce a tenersi equidistante tra la letteratura engagée e una narrativa puramente di intrattenimento, facendo percepire – attraverso la sua lingua ritmata, lirica, epica – la dismisura della follia e della menzogna in cui sono radicate tutte le guerre di conquista. Il lavoro stilistico di questo romanzo, variando su registri diversissimi, dal burlesco al tragico, è tutto concentrato nel rendere la dimensione orale delle voci, che si alternano e fluiscono come monologhi interiori, senza soluzione di continuità, dove punteggiatura e relative maiuscole sono quasi del tutto assenti.

Il risultato è di grande pressione emotiva e sensoriale, e permette al lettore di entrare nella intimità delle più crudeli turpitudini di cui è fatta la guerra di conquista. L’azione del romanzo culmina in senso di fallimento che spinge Séraphine a tornare in Francia, non prima di avere perso due figli e una sorella. L’illusione ha ormai da tempo ceduto spazio alla coscienza dell’assurdità intrinseca all’avventura coloniale, e dunque: «il nostro stordimento quotidiano, la nostra impressione di aver perduto tutta l’anima o quasi, ci impediva di riprendere il lavoro di coloni che avevamo abbandonato, di trovare un senso vero alla nostra presenza su questo maledetto suolo d’Algeria».