Come già nel 2022 con Gian Maria Tosatti, il padiglione Italia della Biennale (promosso dalla Direzione generale creatività contemporanea del Mic) anche quest’anno è affidato a un unico artista, Massimo Bartolini. È lui, toscano di Cecina, generazione 1962, ad aver immaginato, in tandem con il curatore Luca Cerizza, l’opera destinata ai 1800 mq. delle Tese. A differenza di Tosatti, Bartolini si allargherà anche al giardino, in una relazione tra chiuso e aperto del tutto in linea con la sua poetica. L’artista è uno ma come ben evidenziato nel titolo, Due qui/To Hear, il dispositivo dell’opera di regge su una logica plurale. Il principio collaborativo è non da oggi al cuore del lavoro di Bartolini, che in questa occasione si è avvalso del musicista inglese Gavin Bryars, che ha creato una composizione su una poesia del poeta argentino Roberto Juarroz, destinata al giardino. La grande installazione ambientale alle Tese avrà invece una componente sonora scritta da Caterina Barbieri e Kali Malone, due giovani compositrici.

Partiamo da qui, dalla centralità del «due». Chi è il «secondo»?
Il due è l’altro per eccellenza. Il due è anche un riferimento al fatto che tutti i lavori presentati sono collaborativi: ho preparato un palinsesto che va immaginato come una scultura all’interno della quale altri artisti agiscono. In questo modo la scultura si completa. In tutte le opere in mostra l’autore non è mai singolo. Soffro il concetto di autorialità. Il due è un po’ il «divertire» nel senso di «divertere», rendere divergente la singolarità dell’opera facendone frutto di una collaborazione.

Luca Cerizza e Massimo Bartolini, foto Matteo de Mayda

Il «due» può essere pensato anche rispetto al pubblico?
Il pubblico è piuttosto il terzo. Assiste a uno scambio dialettico e si immedesima con l’uno o con l’altro. In questo modo partecipa. In altri miei lavori il pubblico giocava un ruolo da secondo, perché si trattava di lavori «cavi», che venivano completati proprio dal pubblico, che innescava dei processi e rivestiva la funzione di interruttore. Senza pubblico quei lavori erano dormienti.
In questo caso è chiamato a un ascolto, come sottolineato dalla seconda parte del titolo?
Abbiamo deciso di giocare con questa libertà che l’inglese permette nel rapporto tra fonema e parola scritta. È sentire ma anche «sentire qui». È chiaro che le due parti del titolo hanno un forte riferimento all’immanenza, cioè a quello che sta succedendo qui, in questo momento. Questo lavoro, come la mia produzione in generale, si sviluppa totalmente nel luogo in cui il pubblico lo sperimenta. È molto spesso irriproducibile o malamente riproducibile, perché ha una natura performativa per sua natura.

Arti visive e teatro sono sempre più connesse?
L’arte ha una propensione a sfondare la cornice e ad assumere un aspetto performativo. Io ho studiato pittura ma non è che ne abbia tratto insegnamenti cruciali per il mio lavoro. Collateralmente ho fatto dei corsi di teatro che invece sono stati davvero molto importanti per me. Dovessi cercare un’asse di riferimento per i miei inizi sicuramente metterei il teatro, proprio perché il teatro come del resto la musica, che riveste un ruolo fondamentale in questo progetto per la Biennale, esiste solamente mentre si fa. Se non è agito non esiste. Un quadro invece esiste anche quando il museo è chiuso.

Quanto è importante la dialettica tra spazio interno e spazio esterno del giardino?
Spazio esterno e spazio interno sono una giustapposizione dialettica che mi interessa nella misura in cui crea scintille. Mi interessa soprattutto il confine tra queste due idee di spazio. Lo spazio interno è quello dove l’essere umano tende a escludere tutto il resto della natura: è un gesto che può essere criticabile o meno ma che identifica molto la nostra specie; nello spazio esterno invece c’è tutto. La selezione operata dall’uomo rispetto allo spazio esterno illumina un po’ tutt’e due. Aiuta a vederli meglio. Nella mostra questi spazi sono trattati in modo da essere saldati insieme attraverso la modalità panica di esperienza che è l’ascolto, con una musica si sovrappone e si lega all’altra. È un po’ l’opposto dell’idea di auditorium, luogo degli uomini per ascoltare musica fatta dagli uomini. L’obiettivo di questa mostra è che le porte dell’auditorium si aprano ed entri un po’ tutto.

Gli alberi sono stati sempre al centro dei suoi lavori. Accadrà anche alla Biennale?
Sì, anche se non posso anticipare di più… Del resto io vivo in campagna e devo confessare che non ho mai pensato di essere diverso da un albero, tanto meno di essere superiore. Quando li guardo mi vien da pensare che se fossi un marziano sceso sulla terra e vedessi da una parte l’albero calmo e fermo e dall’altra l’uomo che s’affanna e smanetta, non avrei dubbi nello stabilire chi è più autorevole e saggio. Andrei a parlare all’albero.