Maschere, specchi e slapstick, l’America a Berlino
Berlinale 74 Molti film indipendenti dagli Stati Uniti traslocano dal Sundance alle varie sezioni della kermesse tedesca
Fare tappa al festival di Berlino, dopo la prima mondiale al Sundance, è da sempre uno dei percorsi classici per il lancio internazionale del cinema indipendente americano. Un percorso che, con il tempo, si è fatto un po’ meno trafficato anche grazie alla determinazione crescente di avere nei festival degli inediti o, se un film non è venduto, di lasciare ogni scelta strategica a potenziali distributori.
È però aumentato quest’anno il numero dei titoli che, da Park City, sono approdati nel programma della Berlinale 2024. Tra quelli più significativi, e l’ unico in concorso, è A Different Man, un intricato teorema sull’identità che richiama naturalmente David Lynch/Elephant Man ma anche le satire newyorkesi di Woody Allen e l’amore per i labirinti escheriani dei film di Charlie Kaufman. Scritto e diretto da Aaron Schimberg, A Different Man è, per certi versi, una variazione sul tema del film precedente del regista, Chained For Life (2018). E i due lungometraggi condividono anche uno dei protagonisti, l’inglese Adam Pearson, lanciato da Jonathan Glazer in Under the Skin.
Edward è un aspirante attore affetto da un tipo di fibroma che, dall’infanzia, gli ha fortemente deformato il volto. Passando di audizione in audizione, Edward è meno frustrato dagli sguardi di disagio che accolgono il suo ingresso in una stanza (alla compassione di circostanza è abituato), che dal fatto che è proprio quel suo aspetto, non il suo talento, a giovargli le poche parti che riesce a ottenere in spot educativi di bassa qualità. Schivo e insicuro, quando non sta cercando lavoro, Edward passa il suo tempo solo, rintanato in un tipico, vecchio e angusto, appartamentino da bohème dell’East Village. «Ogni infelicità nasce dal non accettare sé stessi», sibila profeticamente il viscido custode dello stabile al suo ingresso, come un coro greco. Pare che la pillola di saggezza arrivi da Lady Gaga.
A scrollarlo, è l’arrivo di una spumeggiante vicina norvegese, Ingrid (Renate Reinseve, la protagonista di The Worst Person in the World), che non solo non sembra turbata dal suo aspetto: decide di trasformare la storia di Edward in una pièce teatrale. Il colpo di scena del film non è quello, ma arriva anche lui all’inizio del film, quando scopriamo che Edward sta sottoponendosi a un trattamento sperimentale per curare la sua malattia. Così, mentre Ingrid prende avidamente appunti per il suo dramma e Edward crede che tra loro stia effettivamente scoppiando una storia, le pillole gli cancellano miracolosamente i fibromi dal volto, che di colpo si trasforma in quello di Sebastian Stan (direttamente dal Marvel Universe: è il Bucky Barnes dei Capitain America). Dotato di una nuova faccia, Edward seppellisce la sua vecchia, deforme, identità e si reinventa come Guy, seduttore seriale e agente immobiliare di successo, che inizia una relazione con Ingrid e la convince a scritturarlo nel ruolo teatrale ispirato dalla storia del «defunto» Edward. A replicare i fibromi di penserà il make-up, garantisce, che oggi può tutto, incluso permettergli di assumere le sembianze del sé stesso che si è appena lasciato indietro…
A complicare il gioco di maschere e specchi (anche Ingrid, scopriremo, non è trasparente come sembra) è l’entrata in scena di Oswald (Pearson), un inglese gioviale a cui sembra impossibile dire di no, sicuro di sé quanto «Guy» -nonostante il nuovo aspetto smagliante- è ancora insicuro e introverso. Essendo sfigurato anche lui da fibromi al volto, Oswald si offre come consulente della produzione iniziando così a competere sia per il cuore di Ingrid che per la «vecchia» identità di Edward. Schimberg attenua l’effetto estenuante delle acrobazie narrative e filosofiche dal suo copione, adottando una forma piana, leggera e lineare, ancorata al realismo che potrebbe caratterizzare una commedia romantica ambientata tra artisti di Manhattan. È quella soluzione che fa funzionare il film.
«Normalizzare» un high concept è anche l’idea dietro a Sasquatch Sunset, dei fratelli David e Nathan Zellner (in concorso a Berlino 2018 con il western Damsel, e nella sezione Special con questo nuovo film).
Già nel 2011, i fratelli del Colorado, che creativamente fanno base ad Austin, avevano dedicato un cortometraggio a Bigfoot, il mitico, peloso, gigante silvestre che abita i boschi del nordovest degli Stati Uniti (era il protagonista dello struggente film di Chris Munch Letters from the Big Man, presentato a Sundance 2011), Sasquatch Birth Journal 2.
Girato come un documentario di osservazione scientifica vecchio stampo -la fotografia, che in una grammatica di lunghe inquadrature e pochi movimenti di macchina, valorizza il paesaggio e la sua qualità magica, è di Mike Gioulakis, collaboratore abituale di Shyamalan e Jordan Peele- Sasquatch Sunset segue vita quotidiana di un gruppo delle creature immaginarie (dietro alle cui tute pelose si nascondono anche Jesse Eisenberg e Riley Keogh, ovviamente irriconoscibili).
I Zellner contrastano la placida, armonica, bellezza delle montagne e della foresta, con le grida gutturali degli sasquatch che -come da leggenda- litigano tra di loro, si picchiano, petano, fanno sesso brutale…. L’effetto, quando riesce, è una slapstick surrealista. Ma, sul soggetto Bigfoot, Munch rimane insuperato. Appena acquistato dalla Sony per la distribuzione mondiale, Between the Temples (era a Sundance in concorso, e Berlino in Panorama) è l’ultimo film dello scrittore/sceneggiatore newyorkese Nathan Silver (The Great Pretender, Thirst Street), un beniamino della scena indie post mumblecore.
Ambientato in una famiglia di ebrei newyorkesi non dissimile da quella in cui è cresciuto lui, è il duetto, un po’ Al Ashby, tra un cantore religioso (Jason Schwartzman) che ha una crisi di fede, dopo la morte di sua moglie, e la sua ex insegnante del liceo (Carol Kane) che gli chiede di educarla in vista del suo Bat mitzvah. Di Love Lies Bleeding, un altro titolo di profilo arrivato a Berlino dal Sundance, diretto dall’inglese Rose Glass, e in programma domenica (Berlinale Special) abbiamo già parlato sulle pagine del quotidiano.
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