«Più mi fate questi complimenti più mi devo dire che non è vero, che non so nulla. Con le immagini bisogna ricominciare sempre da capo: dove la macchina deve essere messa, come bisogna tagliare… molto dipende dagli attori, ma anche dal liberarsi da come una cosa “deve” essere. Quando accade è ottimo perché il problema più grande sei sempre te stesso e l’ego che si mette in mezzo». Così Martin Scorsese ha parlato del suo fare cinema nell’incontro con la stampa in occasione della consegna dell’Orso d’oro alla Carriera. Di ottimo umore, curioso di ascoltare gli input provenienti dalla platea, il regista newyorkese ha un’idea chiara sul futuro del cinema: «Non credo affatto stia morendo, si sta trasformando. Le tecnologie cambiano in maniera rapida, ma non dobbiamo spaventarci o diventarne schiavi, bisogna indirizzarle nel modo giusto. La differenza la fa la voce individuale di chi crea: può esprimersi su TikTok, in un film di quattro ore o nelle serie». I tempi compressi pongono comunque diverse sfide formali. «Ho girato 30 secondi per Giorgio Armani tanti anni fa, e lì ho capito – anche se avrei dovuto capirlo dal cinema sovietico, in cui le cose vanno così veloci e rimangono nel cervello per sempre – che ci vuole disciplina per controllare durate così brevi».
Scorsese è noto per essere uno dei registi più “cinefili”, ormai da tempo si impegna nel restauro di film del passato, di cui diversi sono in programma quest’anno nella sezione Classici della Berlinale. «Per scegliere su quali film lavorare cerco quelli che ci hanno influenzato, e con il plurale intendo me, Brian De Palma, Spielberg, Schrader. Eravamo un piccolo gruppo all’inizio degli anni ’70, cercavamo le copie ed era molto difficile trovarle in buone condizioni».

IL REGISTA torna quindi ancora più indietro, alla sua infanzia nel Lower East Side. «Ricordo benissimo quando mio padre mi portò a vedere Il fiume di Renoir, o quando vidi alla tv Mizoguchi o Pather Panchali. Erano doppiati e con la pubblicità ma comunque bellissimi. In quel film per la prima volta ho visto dei personaggi che normalmente erano relegati allo sfondo, essere messi in primo piano. Ha cambiato la mia visione. A volte i film cambiano davvero la vita, il modo di vedere, di comportarsi. Come le sinfonie di Beethoven, che mi sembrano sempre diverse quando le ascolto, chiaramente sono io che sono cambiato. Nel mio quartiere i genitori non erano intellettuali, non leggevano libri, magari anche oggi i ragazzi possono essere influenzati da qualcosa che hanno visto». E sul ruolo dei festival aggiunge: «L’impermanenza appartiene alla vita, lo sappiamo tutti, ma non dobbiamo arrivare lì così presto! Finché siamo qui, comunichiamo attraverso l’arte. I festival rendono il mondo più piccolo».
Sollecitato poi sul suo prossimo progetto, incentrato sulla figura di Gesù, dice ancora che non sa che tipo di film sarà. «Quando l’avrò capito, riuscirò di nuovo a dormire. In ogni caso, spero che darà da pensare». Infine, quando una giornalista gli chiede di descriversi con una parola, chiosa con un elegante e profondo: «A mistery».