Marina Otero, la ricerca e il pericolo dei Data Center
Intervista L’architetta che insegna a Eindhoven, specialista del lavoro automatizzato, racconta la sua ricerca, attraverso la quale propone nuove prospettive di osservazione sul complesso rapporto tra lavoro e tecnologia
Intervista L’architetta che insegna a Eindhoven, specialista del lavoro automatizzato, racconta la sua ricerca, attraverso la quale propone nuove prospettive di osservazione sul complesso rapporto tra lavoro e tecnologia
Come si stanno confrontando artisti e ricercatori con le implicazioni etiche, sociali e ambientali delle tecnologie? Quali sono i mutamenti in atto? Se n’è parlato all’Art in the Age of the Metaverse, conferenza tenutasi ad Amsterdam e organizzata da Rijksakademie, The Hartwig Art Foundation e Memory Gems. Una piattaforma internazionale di discussione che ha riunito una ventina di relatori, tra cui l’ «Abogamer» Micaela Mantegna, avvocatessa argentina specializzata in videogiochi ed etica dell’Intelligenza Artificiale, l’artista Ian Cheng, la kenyota Chao Tayiana, fondatrice di African Digital Heritage, organizzazione senza scopo di lucro di Nairobi che promuove la digitalizzazione del patrimonio culturale africano, Jinha Lee, pluripremiato designer coreano, lo studio di game design Moving Castles e Marina Otero. Architetta, ricercatrice e direttrice del Master Social Design della Design Academy di Eindhoven, Otero studia le architetture per il lavoro automatizzato nell’orticoltura, nell’allevamento intensivo e nella logistica. Una delle sue più recenti ricerche riguarda i Data Center. Su questo l’abbiamo intervistata.
La sua ricerca l’ha portata ad analizzare l’impatto ambientale dei Data Center, nei Paesi Bassi, in Cile, in Portogallo. I data center sono luoghi di investimenti e controversie. Può parlarci di questa apparente contraddizione?
Negli ultimi anni i data center sono diventati un importante area di investimento. Le previsioni indicano una forte crescita nella produzione di dati, che dovrebbero crescere del 23% all’anno dal 2020 al 2025, raggiungendo i 180 zettabyte nel 2025, secondo il Global DataSphere di IDC.
La società di consulenza Garnter stima che la domanda di storage dei dati potrebbe potenzialmente salire al 50% dal 2020 al 2030. Crescita che sta superando le possibilità delle odierne soluzioni di archiviazione, che porterà a una potenziale insufficienza.
Gli sviluppi dell’IA, dell’Internet delle cose e del Metaverso aggraveranno il problema. La più grande società di servizi immobiliari commerciali a livello globale, CBRE ha aperto una divisione per i data center, lo stesso hanno fatto aziende di architettura e ingegneria come Corgan, HDR, Gensler, AECOM e Arup.
È opportuno ricordare che i data center rappresentano oltre il 2% delle emissioni globali di carbonio, l’equivalente del settore aereo. Senza miglioramenti nell’efficienza energetica, il consumo di elettricità dei data center potrebbe aumentare dal 3% al 13% del consumo totale di elettricità entro il 2030.
Vi sono paesi che stanno regolamentando la costruzione di Data Center?
Sì. Un esempio è il progetto di Meta a Zeewolde, su cui il governo olandese è intervenuto con regolamenti severi. A Santiago del Cile la comunità di Cerrillos si è opposta a un progetto di Google per l’impatto che avrebbe avuto sulla falda acquifera di Santiago Central, già sotto pressione a causa della siccità.
Tre zone a ovest di Londra, Hillingdon, Ealing e Hounslow, potrebbero non poter costruire nuove abitazioni fino al 2035 a causa delle limitazioni della rete elettrica. La Greater London Authority (GLA) ha dichiarato che la pressione sulla rete è cresciuta a causa dei Data Center che richiedono grandi quantità di elettricità. In seguito alle crisi climatica, è fondamentale che l’industria dei dati reinventi il modo in cui produce, distribuisce e archivia i dati, per mitigare il loro impatto sul pianeta.
Ho letto che anche a Singapore, sono stati attuati divieti temporanei.
È vero. Dopo una moratoria di due anni, il governo di Singapore ha implementato misure per renderli sostenibili. Tra questi vi sono Data Center galleggianti alimentati da pannelli solari che utilizzano acqua di mare per il raffreddamento, tecniche sviluppate dal Sustainable Tropical Data Center Testbed della National University of Singapore in collaborazione con Big Data Exchange e Sembcorp Marine. Microsoft con il progetto Natick sta testando Data Center sottomarini negli Stati Uniti e nel Regno Unito, soluzioni che le regioni cinesi di Hainan e Guangdong hanno incluso nei loro piani di sviluppo. Resta da vedere quale impatto avranno sugli ecosistemi marini, che potrebbe essere potenzialmente devastanti.
Esistono progetti che permettono di avere un minor impatto sull’ambiente?
Tra le proposte vi è quella di sviluppare edge computing decentralizzati, costruire data center orbitanti attorno alla Terra che potrebbero ridurre l’impatto sui consumi energetici.
Personalmente sono più interessata ad adottare pratiche di contenimento, e non credere solo nell’inevitabilità della crescita. Aziende e governi continuano a cercare soluzioni «meno dannose» invece di ridefinire la produzione e archiviazione di grandi quantità di dati. Dovrebbero essere messe in atto misure per prevenire l’accaparramento non necessario dei dati. È essenziale distinguere tra tipi di dati, alcune informazioni sensibili devono essere conservate in ambienti sicuri per lunghi periodi, mentre altre possono essere condivisi facilmente senza protezione.
Perché persiste l’idea che la rete non abbia un impatto ambientale? Visto che le infrastrutture di rete producono lo stesso inquinamento dell’industria aerospaziale?
È la sua rappresentazione come nuvola immateriale, e la comunicazione errata che lo spazio digitale sia illimitato. Comunicazione pericolosa, visti i limiti del pianeta.
Ma dobbiamo essere realisti: ci è stato venduto un cloud e invece ci siamo ritrovati con scatole solide, assetate di energia. L’obiettivo non dovrebbe essere solo quello di rendere i data center più efficienti ed ecologici, ma cambiare il rapporto con i dati.
Gli individui, così come le aziende e le istituzioni private e statali, raccolgono enormi quantità di dati, che sono ritenuti un bene prezioso, come se fossero dei capitali, anche se non sappiamo perché o per quale scopo. Dobbiamo produrre meno dati e prendere decisioni collettive su quali informazioni conservare per le generazioni future.
È davvero «energia verde sostenibile» quello che i paesi nordici stanno promuovendo con la creazione dei loro Data Center?
La grande crescita è dovuta a condizioni fiscali e atmosferiche favorevoli e alla crescente disponibilità di energia rinnovabile. Sviluppo che sta avvenendo a spese delle popolazioni indigene, come i Sami, i cui diritti sono ignorati in nome della sostenibilità. L’espansione dei parchi eolici per fornire energia rinnovabile ai Data Center sta causando danni ai pastori, perché tolgono alle renne i loro pascoli abituali.
Il tuo lavoro di ricerca ti ha portato a organizzare convegni, incontri e mostre. Potresti parlare dell’esposizione «Compulsive Desires: On Lithium Extraction and Rebellious Mountains», che stai curando alla Galeria Municipal do Porto?
La mostra esplora le connessioni tra ecologie sociali, mentali e ambientali riguardanti l’estrazione del litio nelle montagne del nord del Portogallo. Il litio ha un duplice ruolo: è utilizzato nelle batterie di cellulari, computer, veicoli elettrici, e come stabilizzatore dell’umore dall’industria farmaceutica. Il litio mantiene le macchine in funzione, i corpi produttivi, e alimenta i sogni capitalisti di una crescita infinita. Mentre la logica che guida l’industria mineraria sfrutta la montagna e i suoi abitanti, le opere in mostra riguardano la protezione degli ecosistemi geologici del pianeta e quelli psicofisici degli individui.
Interventi estrattivi che vengono presentati come male «minore» rispetto alla dipendenza dai combustibili fossili.
Dal 2016 il governo portoghese e la Commissione europea hanno avviato progetti di estrazione a Covas do Barroso, una delle più grandi riserve di litio in Europa, pubblicizzandolo come un passo necessario verso la decarbonizzazione. Le comunità rurali di Covas sono esclusi dai processi decisionali, dalla redistribuzione dei benefici e dei diritti, stanno protestando per l’impatto che l’estrazione avrà sull’ecosistema, lotte condivise da comunità esposte allo stesso problema in Argentina, Bolivia, Cile, Repubblica Democratica del Congo, Spagna.
Pur riconoscendo l’importanza del litio per allontanarsi dai combustibili fossili, dobbiamo essere consapevoli che i «futuri verdi» di oggi si basano sullo sfruttamento di risorse che non sono infinite. Quello che viene descritto come «colonialismo verde», attuato in nome della sostenibilità, come nel caso della comunità sami precedentemente citato, mette in pericolo l’ecosistema. E questo è un tragico paradosso.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento