Non è finita qui. La confessione di uno dei killer di Marielle Franco e l’arresto di un complice hanno segnato una svolta importante nel caso dell’omicidio della consigliera comunale del Psol e del suo autista Anderson Gomes, il 14 marzo del 2018. Ma, a distanza di ben 5 anni, restano ancora senza risposta le due domande chiave: chi ha ordinato di uccidere Marielle e perché.

Domande che la nuova fase delle indagini federali che potrà ora aprirsi punteranno a sciogliere, come ha assicurato in conferenza stampa il ministro della Giustizia Flávio Dino, annunciando «nuove operazioni» per le prossime settimane.

ALMENO SUGLI ESECUTORI del crimine, però, un punto è stato messo. Firmando un accordo di delação premiada (accettando, cioè, di collaborare con la giustizia in cambio di uno sconto di pena), l’ex poliziotto militare Élcio Queiroz, in carcere dal 2019 in attesa di processo, ha infatti raccontato per filo e per segno come sono andate le cose, ammettendo di aver guidato la Chevrolet Cobalt da cui l’altro ex poliziotto Ronnie Lessa, anche lui in una prigione di massima sicurezza da oltre tre anni, avrebbe sparato la raffica di mitra contro Marielle e Anderson, di ritorno da un evento nel quartiere Lapa.

Era già da un po’, ha riferito Queiroz, che Lessa aveva ricevuto l’incarico di uccidere Marielle, la quale, in attesa che venisse trovata l’occasione giusta, veniva pedinata, tra gli altri, dall’ex pompiere Maxwell Simões Corrêa, noto come Suel, impegnato a fornire supporto logistico e a contribuire alla pianificazione del crimine. E proprio quest’ultimo, che era già stato condannato per ostruzione alla giustizia ma scontava la sua pena in un regime di semi-libertà, è stato arrestato lunedì nel quadro dell’operazione Élpis, come è stata chiamata, dal nome greco della dea della speranza, la prima fase dell’indagine condotta dalla Polizia federale, nelle cui mani il caso è passato lo scorso febbraio.

Altre persone, tuttavia, hanno preso parte al crimine, a cominciare dal sergente della polizia militare Edimilson Oliveira da Silva, noto come Macalé, indicato da Queiroz come colui che avrebbe proposto a Lessa, non si sa per conto di chi, di uccidere Marielle. Mentre a sbarazzarsi dell’auto usata per l’omicidio sarebbe stato il sergente Luiz Carlos Felipe Martins, conosciuto come Orelha, a sua volta molto vicino ad Adriano Nóbrega, il comandante di una delle più violente milizie di Rio, Escritório do Crime.

LO STESSO NÓBREGA a cui il primogenito dell’ex presidente Bolsonaro, Flávio, aveva concesso la Medaglia Tiradentes, il massimo riconoscimento dell’Assemblea legislativa di Rio de Janeiro, e di cui aveva assunto la madre e l’ex moglie nel suo gabinetto di deputato statale.

Difficile che sia solo un caso che tutti e tre, Macalé, Orelha e Nóbrega, siano stati assassinati: i primi due a Rio nel 2021, mentre il terzo in circostanze decisamente sospette nel febbraio del 2020.

C’è una domanda, tuttavia, che resta sullo sfondo e che si è puntualmente riaffacciata nel corso di questi cinque anni: che ruolo hanno giocato in tutta questa vicenda Jair Bolsonaro e il suo clan familiare?

A chiamarlo in causa era stato il portiere del condominio Vivendas da Barra, dove Bolsonaro viveva a Rio de Janeiro e dove abitava, al n. 66, lo stesso Ronnie Lessa, da cui Élcio Queiroz si era recato quello stesso 14 marzo. Nella sua prima deposizione, il portiere, Alberto Jorge Mateus, aveva riferito che, poche ore prima dell’assassinio di Marielle, Queiroz gli aveva detto che stava andando a casa di Bolsonaro, allora deputato, al n. 58, come sarebbe risultato anche dal registro delle visite.

ED È PROPRIO da quell’appartamento che un uomo identificatosi all’interfono come il “signor Jair” aveva autorizzato il suo ingresso nel condominio: la sua voce, aveva riferito il portiere, gli era sembrata proprio quella di Bolsonaro. L’ex presidente aveva però respinto le accuse, sostenendo che quel giorno si trovava in Brasilia per una sessione alla Camera.

C’è chi ha ipotizzato allora che la voce fosse quella di suo figlio Jair Renan, di cui si diceva che avesse una storia con la figlia di Ronnie Lessa, benché quest’ultima all’epoca vivesse negli Stati uniti. Una relazione quanto mai opportuna, potendo offrire una spiegazione plausibile allo scambio di telefonate, emerso dalle indagini, tra la casa di Bolsonaro e quella di Lessa.

IN OGNI CASO, FURIOSO per essere stato chiamato in causa, Bolsonaro si era rivolto in cerca di aiuto all’allora ministro della Giustizia Sergio Moro, il quale, scattando immediatamente sull’attenti, aveva sollecitato la Procura generale della Repubblica ad aprire un’indagine per verificare le circostanze, ritenute sospette, della deposizione del portiere. E, guarda caso, Mateus aveva ritrattato.