Maria Eichhorn, radicale, rigorosa, concettuale
Padiglione Germania, Revocating Structure (Maria Eichhorn) – Foto di Matilde Cenci
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Maria Eichhorn, radicale, rigorosa, concettuale

Biennale Arte 59 L'artista rappresenterà la Germania a Venezia: una scelta coraggiosa
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 16 aprile 2022

Rigorosa, sofisticata, concettuale, Maria Eichhorn realizza opere su relazioni di potere e pratiche istituzionali con interventi minimali ma dal forte valore simbolico e politico. Nata nel 1962 a Bamberga, nel nord della Baviera, l’artista ha iniziato a esporre alla fine degli anni Ottanta, partecipando a Skulptur. Projekte in Münster (1997), a svariate biennali, tra cui Guangzhou (2008), Venezia (1993, 2001 e 2015), Documenta 11 e 14 (2002 e 2017). Numerose sono le sue mostre personali in musei internazionali. I suoi progetti sono il risultato di lunghe trattative che mettono in discussione sistemi di valore economico e sociale. Sono interventi pensati come atti performativi che aprono nuovi spazi di senso e conoscenza.

Indagini e destini
In Restitutionspolitik / Politics of Restitution (2003), l’artista si è occupata delle proprietà espropriate dai nazisti agli ebrei in Germania e nell’Europa occupata. Opere d’arte, appezzamenti di terreno, brevetti, ogni sorta di cose che sono state sequestrate illegalmente e mai restituite ai legittimi proprietari. Tematica che ha continuato a esplorare in progetti successivi e che, nel 2017, ha portato alla fondazione del Rose Valland Institute. Istituto che rende omaggio allo storico dell’arte francese che registrò segretamente il saccheggio nazista di Parigi. È grazie agli elenchi da lui compilati che diverse opere d’arte furono restituite.
Materiali del Rose Valland Institute sono stati esposti alla Neue Galerie di Kassel, a documenta 14. Erano in mostra i casi di studio indagati da ricercatori, storici e scienziati, inclusa un’indagine sul destino di una collezione di proprietà di una famiglia di Kassel. Ai visitatori era permesso di esaminare i documenti, i registri d’asta e gli inventari, oltre a una piccola biblioteca con volumi sul medesimo tema, tra cui Politics of Restitution, scritto dalla stessa Eichhorn.

Maria Eichhorn, D. S. B. D. S. D. S. B. D. U. D. U. B. D. U. D. U. B. D. S. / A Lion in an Empty Room, 1990, exhibition view, So oder so, Künstlerhaus Bethanien, Berlin, © Maria Eichhorn / VG Bild-Kunst, Bonn 2021, photo: Werner Zellien

Sempre per documenta 14 ad Atene l’artista ha trasformato lo statuto legale di un edificio abbandonato in un bene non posseduto. Ha lavorato con avvocati e studiosi per far sì che l’edificio fosse riconosciuto come privo di proprietà e non svenduto per speculazioni finanziarie, visto che la devastante crisi economica greca dei primi anni duemila aveva costretto molti ad abbandonare le case in cui vivevano. La struttura in pietra a due piani costruita alla fine degli anni Venti insieme alla documentazione dell’iter legale sono stati acquistati dal Migros Museum di Zurigo, diventando parte della collezione del museo. Con Building as Unowned Property – questo il titolo del progetto – l’edificio assume lo «statuto» di una scultura nello spazio urbano e un nuovo codice di diritto riconosce il concetto di immobile senza proprietario. Nel 2016 con la personale 5 weeks, 25 days, 175 hours alla Chisendale Gallery di Londra si è occupata delle condizioni di lavoro nella società contemporanea. Ha organizzato un incontro in galleria sul tema, invitando teorici e studiosi come Isabell Lorey, Stewart Martin e Andrea Phillips. Dopo essersi confrontata con i dipendenti, ha deciso di chiudere la galleria, così che nessuno dovesse lavorare. L’opera si è costituita nel tempo libero dato al personale, non ha assunto la morfologia di un oggetto o di un’immagine, ma ha attivato riflessioni per ripensare il valore oggi attribuito al tempo, interrogando a sua volta il sistema dell’arte, il lavoro dell’artista e quello della galleria. Già nel 1969 Robert Barry con Closed Gallery Piece aveva scelto di presentare solo un testo sulla porta della galleria in cui scriveva: «Per la mostra la galleria sarà chiusa». La proposta di Eichhorn si situa sulla stessa linea concettuale, mettendo però in primo piano non tanto la negazione dell’opera, ma la sua trasformazione in tempo di vita vissuto e non di lavoro salariato.

Pensiero critico
Maria Eichhorn rappresenterà la Germania alla Biennale d’arte di Venezia. Una scelta coraggiosa da parte della commissione, considerando la natura della sua ricerca e del forte approccio storico, sociale, politico e di critica radicale del suo lavoro. In una conversazione con Yilmaz Dziewior, curatore del padiglione e direttore del Museum Ludwig di Colonia, Eichhorn ha affermato che per il suo progetto intende indagare la storia dell’edificio in relazione alla storia della Biennale. Vuole riflettere sulla funzione rappresentativa dei padiglioni nazionali ai Giardini perché, come le ambasciate, sono di proprietà dei diversi Paesi — ad esclusione di quello degli Stati Uniti che appartiene alla Guggenheim Foundation — e rispecchiano le politiche economiche, sociali e geopolitiche di chi li governa.

Eichhorn ricorda che la Biennale fu fondata nel 1895 per contrastare il declino economico della città, promuovendo economia e industria del turismo. Oggi, invece, sempre nelle parole dell’artista, le biennali, come del resto buona parte dell’industria culturale, contribuiscono al disastro ecologico. «Anche le crociere e il turismo di massa creano grandi problemi a Venezia, non solo la speculazione immobiliare – afferma -. Il comitato Nograndinavi protesta da anni contro crociere e imbarcazioni di lusso, e gli attivisti del Venice Climate Camp organizzano campagne per chiedere ai turisti di non andare in Laguna».
Queste sono le riflessioni e il «palinsesto» concettuale alla base del progetto espositivo di Eichhorn, sempre radicale nell’affrontare la realtà dei fatti con analisi propositive e suggerire cambiamenti e nuove prospettive.

SCHEDE

Padiglione Stati uniti e Gran Bretagna, le resilienze di Simone Leigh e Sonia Boyce
Il padiglione Usa è affidato all’arte di Simone Leigh, per la cura di Eva Respini. Leigh – prima artista nera a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia – è nata a Chicago nel 1967 e risiede a New York. Per la sua personale ha realizzato una nuova serie di sculture in bronzo e ceramica che sottolineano il suo lavoro sulla resilienza delle donne black. Attingendo alle tradizioni artistiche dell’Africa e della diaspora africana, usa una strategia che definisce «la creolizzazione della forma», intrecciando linguaggi culturali disparati a vicende della colonizzazione. Per saperne di più: (simoneleighvenice.org)
Anche la Gran Bretagna ha un «esordio» con Sonia Boyce, la prima donna di origine afrocaraibiche a essere scelta dal British Council. Presenterà una installazione composta da video, suoni, wallpaper e oggetti scultorei, per descrivere la vitalità del gioco  e della collaborazione.

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Padiglione portoghese: Pedro Neves Marques, vampiri spaziali
Pedro Neves Marques sarà l’artista che rappresenterà il Portogallo (padiglione presso la nuova sede di Palazzo Franchetti, a cura di João Mourão e Luís Silva). Porterà in Laguna una dinastia di «Vampires in Space» tra film e installazioni. Creature sospese fra varie identità, viaggiatori interstellari secondo l’autore, i vampiri bene interpretano le fluidità di genere e le istanze contemporanee della sessualità e del fenomeno migratorio. Ma per l’assegnazione della mostra ci sono stati problemi e una polemica: la proposta della personale dal titolo «A Ferida – The Wound» di Grada Kilomba (nata nel 1968 a Lisbona, artista interdisciplinare, femminista, che indaga la memoria, il trauma, il rapporto fra i generi) non è stata accettata e il curatore Bruno Leitão ha condiviso una lettera in cui affermava che la proposta sarebbe stata valutata secondo un sistema sbagliato e in via pregiudiziale.

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