Marguerite Duras, la famiglia, guardiana dell’indecifrabile
Novecento francese Uscito da Plon nel 1943, e tradotto ora per la prima volta da Feltrinelli, «Gli impudenti» sembra avere più cose da dire su una stagione della prosa francese che sul futuro dell’autrice
Novecento francese Uscito da Plon nel 1943, e tradotto ora per la prima volta da Feltrinelli, «Gli impudenti» sembra avere più cose da dire su una stagione della prosa francese che sul futuro dell’autrice
Ai libri d’esordio, in specie se poco noti, viene naturale chiedere virtù premonitorie: quasi che fosse inevitabile trovarci in nuce – magari maldestre e acerbe, ma patenti – le qualità dei futuri capolavori; o quantomeno le premesse di uno stile originale, e naturalmente inconfondibile. Se però la scrittrice di cui si legge il primo romanzo ha per cifra l’imprevedibile metamorfosi, se in mezzo secolo di attività letteraria, fra gli anni Quaranta e i Novanta del secolo scorso, ha moltiplicato le fasi, i periodi, i mezzi espressivi, ha attraversato le poetiche più disparate (dal realismo «americano» all’autobiografismo lirico, passando per il nouveau roman), senza mai aderire a una formula o cristallizzarsi in una forma, è transitata dal romanzo al teatro al cinema (e ritorno) con sconcertante disinvoltura, ha eletto a precaria dimora, esistenziale e estetica, l’instabilità e l’ambivalenza, al punto che uno specialista come Gilles Philippe ha potuto evocare per lei la leggenda della nave Argo, identica a se stessa dopo che ogni sua parte era stata sostituita, se insomma gli esordi di cui si discute sono quelli di Marguerite Duras, la retorica delle origini rischia di svuotarsi di ogni significato.
Non a caso, il suo primo romanzo – Gli impudenti – pubblicato da Plon nel 1943, non era mai stato tradotto in italiano (esce dopodomani per Feltrinelli, nella versione di Letizia Imola e con una postfazione di Rosella Postorino, pp. 248, € 22,00). A lungo rifiutato dall’autrice, che ne ha autorizzato la ristampa solo in extremis, nel 1992, e generalmente assai poco apprezzato dalla critica, che ne ha sottolineato l’impianto tradizionale e le incongruenze narrative, sembra avere più cose da dire su un momento della prosa francese che sul futuro dell’autrice. Ci si sente soprattutto la tradizione di certo romanzo psicologico provinciale, alla Mauriac, su cui s’innestano a freddo velleità di rinnovamento importate da oltre Oceano (Hemingway più che Faulkner). È infatti un classico romanzo familiare, come rivela il titolo di una prima versione, rifiutata da Gallimard nel 1941: La Famille Taneran. Il padre è debole e assente, la madre al tempo stesso debordante e fragile, il figlio minore, Henri, evanescente; sono i figli di primo letto, Jacques e Maud, a muovere la vicenda: il primo, affascinante e viziato, conduce un’esistenza dissipata, accumula i debiti, manipola la madre, non esiterebbe a vendere la sorella al figlio ottuso e abbrutito di una famiglia di contadini ricchi, i Pecresse.
Dopo la morte della moglie di Jacques (incidente d’auto in sospetto di suicidio), la scena si sposta infatti presto dalla banlieue residenziale di Parigi alle campagne del Sud-Ovest della Francia, dove la tenuta di Uderan evoca un’analoga proprietà acquistata dal padre della scrittrice, nei pressi del borgo di Duras – da cui lo pseudonimo, qui adottato per la prima volta. La vicenda si svolge fra primavera e estate: le descrizioni della natura rurale, scorciate ma cariche di notazioni sensoriali e sensuali, possono sorprendere il lettore abituato all’economia ellittica, quasi astratta, dei romanzi più maturi; ma anche qui gli accenni di idillio campestre si corrompono sistematicamente. La violenza del sole e della pioggia, la rapida decomposizione della materia vegetale, la decadenza della tenuta di famiglia sono la cornice di una storia al tempo stesso fosca e banale: mentre una ragazza sfruttata, sessualmente e non solo, da vari uomini si suicida nel fiume (criminosamente istigata da Jacques?), all’inevitabile vendita di Uderan si intreccia uno squallido accordo matrimoniale, che lo spirito ribelle di Maud – la vera protagonista – manda a monte.
Forte, naturalmente, è la tentazione di ricamare sugli spunti autobiografici, evidenti nonostante le frequenti distorsioni: l’amore cieco della madre per il primogenito, la rabbiosa gelosia della sorella, in realtà tutt’altro che insensibile al fascino perverso di Jacques (se è vero che l’uomo cui si concede, Georges, è per molti versi un doppio del fratello), l’assenza del padre – altrettanti elementi che si prestano a una pettegola e vacua lettura a chiave; o, peggio ancora, possono alimentare incongrue interpretazioni in salsa gender (il dissipato e psicolabile Jacques incarnerebbe il patriarcato!).
C’è di vero, però, che al nucleo incandescente dei rapporti familiari l’ispirazione di Duras attingerà sempre, per decenni, esplorando e deformando (l’autofiction non nasce certo col nuovo millennio) un trauma tanto violento quanto creativamente produttivo. Lo conferma, spiazzante e esemplare, il commento di Duras sul famoso «Famiglie, vi odio!» di André Gide: «Battuta stupida. Cos’avrebbe fatto senza di lei? […] Se la famiglia, guardiana dell’indecifrabile, non stesse lì, non ci sarebbero libri a questo mondo».
Nondimeno, a leggere il romanzo d’esordio iuxta propria principia, si dovrà riconoscere che il motivo dominante è economico non meno che psicologico. Debiti, passaggi di proprietà, trattative matrimoniali, ascesa dei parvenus e patetica resistenza di una borghesia intellettuale in declino: come da tradizione (realista) del romanzo di famiglia, sono questi i pilastri della narrazione. Non è dunque soltanto la sorprendente assonanza dei titoli a indurre a accostare Gli impudenti a un altro esordio, più precoce e ben altrimenti memorabile: Gli indifferenti di Alberto Moravia (1929). È vero che Maud, quando si concede a Georges, crede di esserne innamorata; è vero che – contrariamente a Carla – la ventenne di Duras ha la forza di rifiutare il matrimonio d’interesse; ma il sentimento dura pochi giorni, le nozze (fuori testo) con l’uomo che l’ha messa incinta si annunciano all’insegna di una noia nauseata, la fuga dalla famiglia riconduce inevitabilmente al punto di partenza.
Il fatto è che Maud si dimostra non meno impudente (e amorale) della madre e del fratello, di cui pure si vergogna: il privilegio del punto di vista, che la narrazione accorda di frequente alla protagonista, può dare a tratti a un lettore ingenuo l’illusione di seguire il romanzo di formazione di una ragazza autentica e sentimentale, il suo eroico tentativo di svincolarsi da un ambiente tossico. Non è così, per fortuna. Anche nei suoi titubanti esordi, Duras rifugge dalle parabole pedagogiche oggi di nuovo in triste voga: in lei, tutto è sempre ambivalente, nessun personaggio è innocente. Ogni amore è impossibile, ogni passione è di per sé tossica e inautentica, e nondimeno merita di essere vissuta: sempre, senz’ombra di rimorso o di senso di colpa. Per questo, Duras non ha mai convinto i nostalgici dei buoni sentimenti, da noi meno che mai: fra l’altro, da anni è fuori commercio il suo romanzo italiano, I cavallini di Tarquinia (ambientato a Bocca di Magra, protagonista un alter ego di Elio Vittorini); per questo, è sempre stata normalizzata dai traduttori: dal titolo del suo primo capolavoro (Un barrage contre le Pacifique, 1950, addolcito in Una diga sul Pacifico) fino alla punteggiatura sghemba.
Dunque è benvenuta questa tardiva versione italiana della sua fragile opera prima: dove, alla fine, c’è troppo e troppo poco, nello stile e nella struttura del libro. Si alternano ellissi e ridondanze esplicative, lacune e cascami neorealisti, noia indifferente e survoltaggio passionale. Ma proprio queste incongruenze logiche, questi sbalzi tonali, queste imperfezioni di un intreccio traballante, che i critici più sciocchi non mancano di sottolineare (nelle prime recensioni e incredibilmente ancora oggi, mentre già nel 1972 Claude Roy ne coglieva la «vertigine di sorpresa»), testimoniano che Gli impudenti è l’esordio di una scrittrice vera.
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