Margini stretti, un thrilling chiamato Brasile
La vittoria di Lula rappresenta un passaggio storico di rilievo denso di tensioni dialettiche perché avviene alla fine di un processo di svolte e contro svolte.
Degno di un romanzo ricco di colpi di scena. Tra l’impeachment di Dilma, l’arresto di Lula e il successivo venir meno delle motivazioni giuridiche dei processi contro i vertici del PT, si è infatti imposta una figura minore della storia politica brasiliana, rivelatasi inaspettatamente capace di rubare la scena e fagocitare tutto il vecchio mondo conservatore nazionale. Dopo aver costruito il suo fronte politico attorno a valori tradizionali e a un programma dal chiaro contenuto reazionario, nonostante un bilancio politico disastroso e una infinità di scandali, Bolsonaro si è dimostrato capace di contendere ogni singolo voto al suo avversario. Fino al 66% dei voti scrutinati era in testa, poi, con l’afflusso dei risultati dalle regioni povere del Nordest, tradizionalmente egemonizzate dal Pt, si è determinato il sorpasso di Lula, ma con un distacco veramente minimo.
Al termine di una durissima campagna elettorale, nella quale non sono mancati momenti di violenza e persino morti, il Paese esce spaccato come una mela con un clima quasi da guerra civile. Quella che divide le due opposte fazioni non è una semplice demarcazione di campo politico, ma una vera e propria linea del fronte tra due visioni del mondo radicalmente alternative e contrapposte in ogni aspetto. Per la prima volta un Presidente eletto non ottiene il secondo mandato, ma si tratta pure della vittoria con il margine più ristretto di sempre tra due candidati. Lula troverà un parlamento nel quale Bolsonaro ha comunque ottenuto un risultato importante, piazzando, specie al Senato, buona parte dei suoi colonnelli ed eleggendo molti governatori in Stati chiave considerati in bilico (come San Paolo), oltre a confermare il risultato di quelli che già governava. Lula dovrà necessariamente assumere un profilo meno radicale, predisponendosi al compromesso con le forze moderate ( in parlamento e nella società). In realtà è uno scenario previsto, come dimostra la decisione di affidare da subito la vicepresidenza a Geraldo Alckmin, dirigente storico del tradizionale partito della borghesia brasiliana (il Psdb), uscito pesantemente sconfitto alle precedenti elezioni quando contese la presidenza al Pt e a Bolsonaro. Come in un thrilling che si rispetti, anche a urne chiuse la situazione è del tutto incerta, anzitutto per la postura sovversiva di Bolsonaro, poco incline ad accettare il verdetto delle urne e timoroso di una lunga serie di processi giudiziari che potrebbero travolgere lui, la sua famiglia e il blocco di interessi di cui è espressione.
Per dare un’idea, alla grande manifestazione bolsonarista del sette di settembre tenutasi a Rio di Janeiro, tra tante altre affermazioni agghiaccianti, un deputato legato al Presidente uscente ha arringato la folla concludendo così il suo comizio incendiario a Copacabana: «Non possiamo permettere che Bolsonaro perda queste elezioni. Se non vinceremo nelle urne lo faremo con i proiettili».
In questi mesi che ci separano dal passaggio di consegne potrebbe succedere di tutto, ma una cosa è certa: Bolsonaro non è uscito ridimensionato dalle elezioni e il suo movimento non solo non è intenzionato a smobilitare, ma contenderà a Lula l’egemonia del Paese nelle sedi istituzionali, nelle piazze e nel dibattito culturale. Il bolsonarismo, infatti, non è solo una tendenza politica di destra, ma un vero movimento di massa, capace di coordinamento «morale» e mobilitazione politica, pur senza avere alle spalle un vero e proprio partito. Il tessuto connettivo tra le diverse aree che lo compongono è anzitutto il fondamentalismo religioso delle chiese evangeliche, che nella società brasiliana assumono una funzione ideologica e anche un ruolo organizzativo più efficace dei partiti e dei sindacati tradizionali, perché si tratta di reti di relazioni sociali permanentemente impegnate in un’attività egemonica molecolare, capace di occupare costantemente il terreno di lotta della società civile.
Nonostante una piattaforma programmatica liberista e antipopolare, Bolsonaro riesce a fare proseliti non solo nei ceti medi radicalizzati dalla crisi e tra i ceti imprenditoriali interessati a nuove prospettive di profitto, legate alla liberalizzazione del mercato del lavoro e allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali nazionali. Egli ottiene consensi ragguardevoli pure tra le grandi masse popolari delle periferie urbane e rurali, presidiate da una rete capillare di sette religiose dotate di enormi risorse economiche. Tutto questo ci indica un quadro politico preoccupante non solo per il Brasile, perché, in una fase storica segnata dalla crisi organica internazionale dell’economia, che è insieme crisi di egemonia di classi dirigenti e ideologie tradizionali, il laboratorio politico di Bolsonaro potrebbe essere non solo un bizzarro fenomeno esotico, ma l’anticipazione di un nuovo tipo di radicalismo reazionario potenzialmente in grado di attecchire anche altrove.
* Professore di filosofia politica UFU (Minas Gerais/Brasil), socio fondatore ed ex presidente International Gramsci Society Brasil
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