Marcos in prima assouta
2 marzo 1994, il subcomandante Marcos con in mano una copia del manifesto nella cattedrale di San Cristóbal de las Casas – Roberto Grisolia
Editoriale

Marcos in prima assouta

Messico-Italia Dall’Alfa Romeo in lotta al Chiapas. 28 anni dopo, l’inviato del manifesto ricostruisce l’incontro particolare con il subcomandante all’indomani della rivolta indigena che stupì il mondo

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 4 gennaio 2022

La scorsa estate una nutrita schiera di rappresentanti dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) è venuta per la prima volta in Europa per condividere e rilanciare insieme le comuni «lotte dal basso». Alcuni di essi/e hanno solcato l’Atlantico simbolicamente su un veliero in direzione contraria rispetto a quanto fece nel 1492 il nostro Cristoforo Colombo: che l’America “scoprì”, spianando disgraziatamente la strada ai conquistadores spagnoli che ne assoggettarono le popolazioni autoctone.

Qualcuno aveva sperato che quella delegazione dell’Ezln comprendesse anche il Subcomandante Marcos. Non poteva che essere un’illusione visto che il sub si era volontariamente “auto-estinto” già nel maggio 2014. «Sì sono morto; smetto di esistere; ma l’ho deciso io», aveva dichiarato prima di scomparire del tutto dopo vent’anni col passamontagna «che abbiamo indossato solo perché vi accorgeste di noi».

CERTO OGNI PRIMO DI GENNAIO ci torna alla mente quello del 1994, con la sorprendente rivolta degli indigeni zapatisti scesi dalla Selva Lacandona con quattro schioppi per occupare per qualche ora San Cristóbal de las Casas; e che lasciò a bocca aperta il mondo intero. Per di più (e non per caso) il giorno stesso in cui entrava in vigore il trattato di libero commercio Nafta fra il Messico e gli Stati uniti.

Gianni Proiettis e Raffaele Crocco (divenuti successivamente collaboratori di questo giornale) si trovavano proprio lì quel Capodanno del 1994 a raccogliere le prime dichiarazioni del sub, un perfetto sconosciuto dagli abiti impolverati di cui si intravedevano gli occhi e una pipa che teneva sempre in bocca.

MA DELL’INCREDIBILE ebbe quanto doveva succedere a noi del manifesto due mesi più tardi, a fine febbraio quando, divenuto assai famoso in ogni dove (quanto in parte ancora indecifrabile), il subcomandante Marcos tornò a San Cristóbal per incontrarsi col delegato del governo messicano. Ero da qualche giorno in Guatemala dove con Sandra avevamo intrapreso l’itinerario maya; e quella mattina lasciammo il mercato di Cichicastenango con il proposito di attraversare il confine col Messico verso il Chiapas. Ce la prendemmo con comodo, inoltrandoci per le meravigliose lagune di Montebello, pur sapendo che nella coloniale San Cristobal si teneva la riunione con gli zapatisti. Al nostro arrivo, verso le cinque del pomeriggio del primo marzo, un collega di quelli abituali che “coprivano” l’istmo centroamericano disse: «È da ieri che bivacchiamo in attesa di novità, e arrivi giusto ora che il sub ha annunciato una conferenza stampa fra un’ora». Mi accreditai subito presso il giovane portavoce dell’arcivescovado, che mi conosceva per aver intervistato l’anno prima monsignor Samuel Ruiz (della teología de la liberación), “garante” dei colloqui in corso.

foto di Roberto Grisolia

C’ERANO QUALCHE CENTINAIO di giornalisti da tutto il mondo in cattedrale. Facemmo la nostra domanda di turno e alla fine dell’incontro mi diressi verso Marcos. Avevo con me (chissà come mi era venuto) diversi numeri del manifesto, uno che apriva sulla repressione in atto nel Chiapas, titolo «I dannati del Messico», e un paio di copie dell’edizione del 19 gennaio con in prima pagina una foto degli operai dell’Alfa Romeo in sciopero ai cancelli di Arese reggendo cartelli con «Viva Zapata». Gliene diedi una e gli chiesi: «Comandante, cosa vorrebbe dire dal Chiapas ai nostri operai dell’Alfa?». E lui, visibilmente impressionato da quella copertina: «La nostra lotta è comune, ma vi raccomandiamo una cosa, fate in modo che non si spengano i riflettori su di noi, altrimenti ci ammazzano tutti».

ALL’ALBA MANDAI SODDISFATTO il pezzo al giornale e la voce registrata del sub a Radio Popolare. Saremmo rimasti lì ancora quel giorno per poi proseguire verso lo Yucatan. Ma nel tardo pomeriggio, mentre ci intrattenevamo fra corrispondenti sotto il pergolato del piccolo hotel, arrivò di corsa il portavoce in cerca dell’inviato del manifesto, che «il subcomandante lo vuole vedere».

Tornai in cattedrale con un giovane fotografo italiano, Roberto Grisolia. Il sub stava dando un’intervista a un canale televisivo privato messicano. Poi sarebbe toccato a noi, nella prima esclusiva assoluta di Marcos con la stampa estera. Gli misi fra le mani un’altra copia del giornale per fargli qualche foto. Alla fine dell’intervista mi accomiatai regalandogli un antico toscano, storicamente di casa nella nostra redazione esteri.

Le autorità messicane furono ovviamente da subito prese dall’ossessione di individuare la vera identità di Marcos per “ri-materializzarlo”. Ma anche lo scoprire che fosse stato un docente dell’Università Autonoma del Messico, non scalfì minimamente la sua fama di rappresentante degli oppressi di tutte le latitudini.

DUE ANNI PIÙ TARDI furono firmati gli accordi di San Andrés fra l’Ezln e il governo retto dall’allora presidente Ernesto Zedillo (del Partido Revolucionario Institucional, Pri) su «diritti e cultura indigena». Purtroppo quegli impegni, che avrebbero restituito dignità ai popoli originari, non furono mai inseriti nella costituzione messicana, né tantomeno applicati. Neppure dopo che nel marzo 2001 Marcos e altri 23 comandanti zapatisti organizzarono una caravana verso Città del Messico nell’intento di estendere a livello nazionale le loro rivendicazioni.

Erano tanto noti quanto troppo minuscoli per ottenere di più. Si aggiunsero poi dissidi fra il subcomandante e la sinistra (sui quali a posteriori Marcos fece pure autocritica), tanto che ancora oggi nel gigante messicano, imperversato dai narcos, il timidissimamente progressista presidente López Obrador e gli zapatisti, di fatto, si ignorano.

L’IMPORTANTE È CHE IN TANTI anni quei riflettori che dovevano restare accesi sul Chiapas non si siano mai spenti. Favorendo una sorta di patto di “non belligeranza” con le autorità costituite (e i latifondisti locali). Che permette ancora oggi ai caracoles zapatisti (i municipi autonomi) di continuare a funzionare, sotto l’egida del Subcomandante Moisés. Mentre lo “scomparso” Marcos pare si “limiti” a scrivere dei libri per bambini.

Sullo sfondo, il leggendario ispiratore Emiliano Zapata che, come ti racconta ancora qualche campesino laggiù, continua a vagare per le montagne di Morelos e del Chiapas sul suo cavallo bianco. Nel 1914 in piena Revolución Mexicana (ben prima dunque di quella bolscevica) aveva marciato sulla capitale alla testa dell’Ejercito del Sur reclamando tierra y libertad.

A QUELLE PAROLE D’ORDINE Marcos ha aggiunto concetti come giustizia e democrazia. Che faticano sempre più a farsi strada in America Latina, il subcontinente più violento del pianeta, per il peggior tempestare del dios dinero e le conseguenti macroscopiche disuguaglianze sociali. Cui di volta in volta si sono ribellati (e si ribellano) in tanti; da ultimo il Cile che ha eletto presidente Gabriel Boric. Perseguendo, contra viento y marea, quell’utopia che come diceva il cineasta argentino Fernando Birri, «si allontana ogni volta quanto il tuo avvicinarti». Facendoti però a camminare nella direzione giusta.

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